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mercoledì 5 novembre 2014

Notas de viaje...: In shaa allah - Se Dio vuole

Notas de viaje...: In shaa allah - Se Dio vuole: Un post nuovo che nella prima parte riprende un post vecchio... Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere ...

In shaa allah - Se Dio vuole


Un post nuovo che nella prima parte riprende un post vecchio...

Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere nata in Kenya, o in Uganda, appena nata, dopo 3 giorni di viaggio mi hanno portato in un negozio polveroso, ero esposta su uno scaffale in un negozio davanti alla moschea, il posto si chiama Pariang, dicono che sia da qualche parte in uno stato nuovo, che si chiama Sud Sudan. Un uomo con la pancia, la giacca e la cravatta che la gente chiama onorevole mi ha comprata. Avidamente, mi ha afferrata e ha bevuto quasi la metà dell’acqua che avevo dentro. Mi teneva stretta, con le sue mani grandi, lunghe e sudate. Siamo andati in uno spiazzo pieno di tende bianche che chiamano campo rifugiati, e’ sceso dal fuoristrada bianco, ha dato un ultimo sorso alla poca acqua rimasta, si e’ asciugato con le mani la bocca grande e ha orgogliosamente detto: “Facciamo in fretta che ho fame”. Ha fatto un giro nel campo rifugiati, una distesa marrone e verde, allagata per le piogge degli ultimi 2 mesi, un lago di fango, escrementi ed immondizia, con migliaia di uomini donne e bambini. Dicono che sono stranieri ma e me sembrano uguali agli altri. Dopo che il signore alto mi ha gettato per terra sono stata raccolta da una bambina, avrà avuto 4 o 5 anni, piccolina, magra, scalza,fango fino alle ginocchia e delle meravigliose treccine, corte, chiuse in elastici gialli, rosa, rossi e azzurri. Quando mi ha visto il suo viso si è aperto in un grande sorriso bianco e luminoso grindando: ”Crystal!” felicissima mi ha preso in mano come nessuno aveva mai fatto, con affetto, sorpresa e devozione. Awadia, credo sia il nome della bimba, che tutti chiamano per provare a rubarmi dalle sue mani, ma Awadia non mi ha mollato, mi ha preso, portata ad un pozzo e mi ha riempito d’acqua, contentissima ha appoggiato le sue labbra sottili e un po’ screpolate, poi mi ha passata ad una sua amica, che si chiama Rabha, anche lei lunga, magra e dai vestiti sporchi di terra, consumati e stracciati. Con me in mano mi sembrano felici, giocano, guardano dentro, mi accarezzano, mi sento amata e venerata come un oggetto nuovo e speciale, nessuno mi aveva mai fatto sentire cosi prima, voglio bene a queste bimbe che mi hanno accolto e amato.
Awadia e Rabha sono solo due delle centinaia di migliaia di bambine e bambini che dal dicembre 2013 hanno abbandonato, forzatamente e con il cuore carico di paura, le loro case. Il Sud Sudan, il più giovane Stato al mondo, nato nel luglio 2011 scindendosi dal Sudan con un referendum organizzato 6 anni dopo gli accordi di pace del 2005. Una pace fragile quella fra Sudan e Sud Sudan, in continuo bilico, tanto che nel 2012 le tensioni hanno portato alla chiusura del confine e all’interruzione del flusso del petrolio che dal Sud Sudan viene trasportato sulle coste del mar Rosso passando attraverso il Sudan. Un rapporto travagliato quello fra Khartoum e Juba ma non quanto le relazioni interne al neo-Stato, dove l’avidità economica e l’ambizione politica hanno portato riaperto vecchie ferite fra gruppi etnici, in particolare fra la tribu Dinka e la tribu Nuer. Il dissenso fra i due maggiori leader politici: il presidente Salva Kiir (dinka, tuttora incarica) e l’ex vicepresidente Rieck Machar (nuer, esautorato a luglio 2013) ha fatto ripiombare il paese nella guerra civile. Questi due “elefanti” hanno sfruttato differenze etniche per mobilitare giovani a combattere e spinto il paese verso uccisioni a sfondo etnico, mentre 12 milioni di “fili d’erba” sud sudanesi ne stanno pagando le conseguenze e continuerrano a pagarle per molti anni.
Dopo mesi di tensione politica in continuo aumento, il 15 Dicembre 2013 un’ incomprensione fra il Presidente Kiir e i soldti della guardia presidenziale ha fatto scoppiare il conflitto. Juba, la capitale del Sud Sudan, è piombata nel caos e migliaia di persone sono state uccise a sangue freddo per la sola appartenenza etnica.
Negli ultimi 10 mesi, un milione e 400 mila sud sudanesi sono fuggiti dalle loro abitazione per scappare dalla guerra e dalla violenza per cercare un rifugio, dove la loro vita non fosse in pericolo. Altri 463,000 sud sudanesi sono rifugiati all’ estero, nei paesi confinanti: Etiopia, Kenya, Uganda e addirittura Sudan. Negli ultimi 3 anni gli effetti combinati dei conflitti tuttora in corso in Sudan (nelle regioni del Sud Kordofan e del Nilo Blu) e in Sud Sudan (Stati di Unity, Nilo Superiore e Jonglei) hanno causato due flussi di disperati: 220,000 rifugiati Sudanesi sono ora in Sud Sudan, mentre 100,000 Sud Sudanesi si trovano in Sudan.
Fra sfollati interni e rifugiati, quasi 1 milione e 900 mila persone, un sud sudanese su 6, non vive più dove viveva un anno fa, tutti hanno perso molti famigliari ma anche tutto ciò che possedevano: casa, campi, attrezzi agricoli, mucche, capre…come se tutti gli abitanti della Regione Calabria si fossero spostati in pochi mesi. In questo momento, oltre 100,000 persone vivono ancora all’interno delle basi militari delle Nazioni Unite. Queste cittadelle fortificate che ospitano i caschi blu dell’ ONU, vista la crudeltà del conflitto, per la prima volta nella loro storia hanno dato ospitalità a civili, evitando così un tremendo massacro a base etnica. Il rimanente milione e 300 mila sfollati interni vivono in campi allestiti dalle agenzie umanitarie in varie parti del paese, ma concentrate soprattutto nei tre stati petroliferi:Unity, Nilo Superiore e Jonglei.
In 10 mesidi conflitto i profughi sono aumentati a vista d’occhio, così come le epidemie di colera, malaria, infezioni polmonari e intestinale legate alle precarie condizioni di vita, spesso nel fango e in ripari di fortuna costruiti con qualche palo di bamboo e nylon distribuiti dalle organizzazioni non governative. Il problema dell’alimentazione, già povera,in un paese che ancora prima del conflitto doveva importare grandi quantità di cibo è ora davvero allarmante. Oltre 3 milioni di sud sudanesi hanno sfiorato la carestia nel 2014, ora il raccolto del sorgo, principale cereale del paese ha portato un leggero sollievo per le tante famiglie che sopravvivono con uno, massimo 2 pasti al giorno, ma le scorte finiranno presto e per febbraio-marzo 2015 già si prevede un nuovo rischio di carestia per quasi 4 milioni di sud sudanesi che non hanno potuto coltivare e non hanno accesso a rifornimenti di beni di prima necessità.
La stagione delle pioggie sta per finire, le strade si seccherranno presto, permettendo ai camion di viveri di muoversi ma permettendo anche agli eserciti contrapposti spostamenti più rapidi. Nei prossimi mesi si teme una riaccensione delle ostilità e un inasprimento dei combattimenti, vistoche le estenuanti e sterili trattative di pace in corso ad Addis Abeba non hanno portato quasi nessun frutto se non una fragile tregua fra gli eserciti.
Con questa situazione non resta che sperare che i due elefanti trovino un accordo (o si tolgano di mezzo) e che si avi un vero processo di pace, per ricucire le ferite e iniziare da capola costrizione di una nazione dove tutte le etnie, lingue, religioni e idee politiche convivano in maniera pacifica. Se non smetterà la pioggia di pallottole, non rimane che continuare ad assistere e stare al fianco dei milioni di “fili d’erba” sud sudanesi che stanno soffrendo, in attesa del sole, che prima o poi, arriverà, “in shaa allah! “ (se Dio vuole).


Liniers, che sottolinea come a volte sia meglio rischiare:
"Una pioggia di emozioni cade sulla citta'" "I piu'avventurosi non aprono l'ombrello"

sabato 12 luglio 2014

Buon compleanno Sud Sudan

Gogrial, Stato di Warrap, mamma e bambine alla "fiera dei semi"

Sud Sudan, da pochi giorni ufficialmente il paese piu’ fragile al mondo, un paese sull’orlo della carestia,4 milioni di persone che rischiano di non aver abbastanza cibo, un paese che compie 3 anni e di cui gia’ ci si chiede quanto ancora durera’questo sogno per cui migliaia di giovani sud sudanesi hanno combattuto e sono morti per oltre 50 anni. Un sogno in cui molti hanno creduto e credono ma come sempre un sogno manipolato da chi decide, da chi comanda, da chi si arricchisce sulla pelle e sulle ferite del popolo sud sudanese.
Buon compleanno Sud Sudan, sicuramente, ma a Bentiu, lo Stato del petrolio, al confine col Sudan, centinaia di donne, vengono stuprate ogni settimana perche’ l’unico modo di sopravvivere e assicurare la sopravvivenza ai loro figli e’ di attraversare le linee militari dei due schieramenti contrapposti per cercare rifugio nelle basi delle Nazioni Unite. In Sud Sudan e’ in atto una corsa disperata al cibo, migliaia di bambini, secondo alcune stime almeno 150,000 moriranno nei prossimi 6 mesi solo per la malnutrizione e problemi ad essa correlati.
A Bentiu, ormai un cumulo di macerie e capanne bruciate, prima del conflitto c’erano anche i cinesi, un centinaio di dipendenti della China National Petrolium Corporation, che sono fuggiti prima di Natale. La Cina sta per consegnare al governo del Sud Sudan 38 miliardi di missili, mine anticarro, lanciagranate, mitragliatrici e munizioni, ordinate nel 2013. La China e’ anche il maggior compratore di petrolio Sud Sudanese e un ottimo partner commerciale del Sud Sudan e sta costruendo anche cliniche e strade in cambio di contratti commerciali privilegiati un po’come in tutta l’Africa. La Cina vuole proteggere le sue fonti di petrolio, come ogni Stato fa: come hanno fatto gli Stati Uniti in Iraq provocando una nuova e spietata guerra civile e come ha fatto l’Italia a Nassirya, dove proteggere il diritto di prelazione dell’ENI sul giacimento petrolifero di Nassirya ci e’ costato la morte di 19 giovani italiani.
Vogliamo dire che fornire armi ad un paese impantanato in una guerra civile che con poche pause dura dagli anni 60 e’ un crimine contro l’umanita’? O crediamo questo o crediamo che gli affari, il commercio, il petrolio, il denaro valgono piu’della vita umana, della pace e della sicurezza di un popolo. Perche’ nessuno lo dice?

Danze tradizionali dinka a Gogrial - Stato di Warrap

Buon compleanno Sud Sudan, certo, ma nel frattempo un milione e mezzo di persone non sono piu nelle stesse case dove hanno festaggiato il Natale, 1 milione e centomila sono gli sfollati in Sud Sudan e oltre 400,000 rifugiati all’estero, di cui 158,000 in Etiopia.
Un milione, una cifra che torna e mi rimbomba nella mente. Un milione di dollari e’ la cifra spesa dal Sud Sudan in armamenti dall’inizio del conflitto, quasi la stessa cifra che le agenzie umanitarie hanno chiesto per affrontare il problema creato dal conflitto fra Kiir e Machar e le loro due elite politico economiche che si stanno spartendo un paese al limite del collasso, diviso, impaurito e fragilissimo. Petrolio, bombe, affari e aiuti umanitari, sono tutti parte dello stesso circolo vizioso?
Uno dei motivi di stess nel lavoro umanitario e’ il senso di inutilita': l’inutilita’ di continuare a lavorare per portare assistenza alle persone piu’ vulnerabili di uno dei paesi piu poveri e tormentati al mondo quando i leader politici si riempiono la bocca di belle parole come pace, unita’ e nazione e nel frattempo comprano milioni di dollari di armi e mandano i giovani di questo paese al massacro, sostenendo: “Noi il nostro dovere l’abbiamo fatto, ora tocca voi andare nella macchia a combattere per il paese”.
Certo il Sud Sudan e’ uno Stato, da 3 anni, ma a che costo? in mano a chi? con che prospettive e speranze?  Vogliamo dire che ancora una volta il concetto di patria, Stato, nazione ma anche di etnia, oppure religione, vengono usati come strumenti per mantenere i privilegi di un’elite politico-economica che sta letteralmente mangiandosi il paese. Un’elite corrotta e falsa, ripugnante, che prima scatena una guerra per incapacita’ (nella migliore delle ipotesi) di gestire un paese e per avidita’ di potere e poi chiede aiuto alla comunita’ internazionale per portare aiuto alla gente che soffre le conseguenze delle proprie azioni scellerate e scelte criminali.

Buon compleanno Sud Sudan, ma oggi sono triste ed arrabbiato.

Un po' di amore e dolcezza con Liniers:

1."Tutto continua uguale"   2."Non cambia niente"   3. "E all'improvviso..." " Posso sedermi qua?" "Si'"



mercoledì 9 luglio 2014

Sud Sudan: fra sole e pioggia

Bambine a Wau

E’ una domenica come un’altra a Wau, il cielo, grigio, uniforme e muto, gli uccelli nascosti fra le fronde del mango in giardino contribuiscono alla canzone di questo pigro pomeriggio. Sono a casa, in salotto, solo, una domenica di riposo dopo una settimana intensa di riunioni, tante ore al computer, arrabbiature ma anche qualche piccola soddisfazione. Fuori scorre il mondo, fuori vivono i sud sudanesi, dal Family Hotel arriva il suono ritmato ed allegro di una canzone di musica congolese, dalla strada, l’unica strada asfaltata di Wau, lontana 50 metri, giungono i rombi delle motorette cinesi, di grossi camon vuoti  e traballanti ma anche dei fuoristrada bianchi delle ong. I vicini di casa accendono il generatore, ritmo delle nostre giornate e tormento delle afose notti sud sudanesi, accesi fino a mezzanotte-l’una, rendono l’addormentarsi una vera sfida, a meno che non si sia notevolmente stanchi e con qualche ora di sonno arretrato. Il cielo grigio racchiude la pioggia che verra’, ormai da qualche mese e’ iniziata la stagione delle piogge, il tempo si fa piu fresco ma anche piu umido, non piove molto, in media una volta ogni 2-3 giorni, a Wau la vita scorre regolare. Un calma piatta ma sospetta di un paese eternamente in bilico fra la pace e la follia, fra la speranza di iniziare un percorso nuovo e i crudi fantasmi della violenza piu’ crudele e spietata. Il paese piu’giovane al mondo, un paese che si avvia verso il suo terzo compleanno, un compleanno amaro, teso e che lascia col fiato sospeso. Un quarto del paese e’ in mano a forze non governative, principalmente a base etnica Nuer, nemici storici dei Dinka, il gruppo etnico politicamente piu’ forte e potente. Negli ultimi mesi sono successi fatti di una violenza inenarrabile, il paese, ancora una volta e’stato scosso nel profondo, un paese, fragile, in bilico fra una stabilita’ precaria e il collasso totale, l’implosione, il tutti contro tutti ( e si salvi chi puo’). Proprio questa settimana, il Sud Sudan e’ stato definito dall’organizzaione americana Fund for Peace (Fondo per la Pace) come “il piu’ fragile paese al mondo”, scalzando la Somalia dal primo posto dopo ben 5 anni. Per quanto queste statistiche possano sempre essere discutibili e criticabili, come e’ stato fatto da alcuni promimenti leader politici, il dato fa riflettere e bisogna dire che da qua la fragilita’si nota nella vita di tutti i giorni. La fragilita’ del Sud Sudan e’stata inoltre confermata anche dal recente nuovo mandato della missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UNMISS). Il numero di soldati e’ stato aumentato a 12,500 (erano 7,000 nel 2011) il numero di poliziotti a 1,323 (erano 900 nel 2011) e il mandato sottolinea l’importanza della missione di pace nel proteggere i civili dalle parti in conflitto (oltre 100,000 persone sono ospitate all’interno delle basi militari UNMISS per motivi di protezione), monitorare infrazioni ai diritti umani e creare le condizioni necessarie allo svolgimento delle operazioni umanitarie. Mentre ad Addis Abeba i leader delle 2 principali fazioni in conflitto, provano a trovare un accordo politico per formare un governo ad interim e rivedere l’assetto del paese, in tutto il Sud Sudan, circa 4 milioni di persone sono a rischio di carestia, quasi la meta’ del paese. Questa settimana nello Stato di Unity sono stati segnalati i primi casi di morte per mancanza di cibo, nella cittadina di Leer (Stato di Unity) un bambino su 10 e’ affetto da malnutrizione acuta e severa che se non trattata tempestivamente conduce alla morte.La malnutrizione nella popolazione generale raggiunge il 40%.

Un altro esempio degli effetti piu’immediati di questa maledetta guerra si trova a pochi chilometri da dove sono seduto. Da fine aprile, la parte meridionale della contea di Wau “ospita” qualche migliaio di soldati Nuer, disertori sbandati dall’esercito regolare per paura di rappresaglie da parte dei colleghi Dinka, vivono accampati in aperta campagna senza cibo, soldi e supporto. Spesso questi soldati visitano i villaggi circostanti e arraffano il possibile,a  volte anche con la forza. Per liberarsi di loro il governo ha mandato qualche centinaio di soldati che per scovare i soldati disertori Nuer hanno pensato di minacciare, picchiare, terrorizzare e violentare le popolazioni locali per ottenere informazioni che conducano alla cattura dei soldati disertori. Il risulato e’ che oltre 7,000 persone hanno dovuto lasciare le proprie case e i propri villaggi e sono fuggite in zone piu tranquille. Scuole e ospedali sono al momento chiusi perche’ occupati da soldati ed utilizzati come dormitori. Abbandonare le campagne in questo periodo significa anche mettere a serio repentaglio il raccolto e di conseguenza ritrovarsi senza cibo fra 2-3 mesi. Come al solito, quando gli elefanti litigano, e’ l’erba a risentirne. L’erba e’ il popolo sud sudanese che ha finora vissuto solamente fame, poverta’, guerra e violenza, una popolo che non ha ancora vissuto i benefici del nuovo Stato, dell’indipendenza, ma che piuttosto continua a subire le stesse soppraffazioni e abusi di sempre. Guardo il verde giardino fuori dalla finestra, una farfalla vola fra le foglie, nella luce calda e tiepida di questa serata africana, la musica continua a suonare fuori, accompagnando le birre e le chiacchere di panciuti keniani che si godono la loro domenica, i generatori continuano imperterriti a dare ritmo a questo pigro pomeriggio di Luglio, una moto suona il clacson, un camion passa prepotente, la vita continua, apparentemente tranquilla. Oggi non ha piovuto, anzi qualche squarcio nel cielo ci regala un bel tramonto sopra Wau, questa pigra e grigia domenica ci dona, all’imbrunire, qualche raggio di sole, qualche raggio di speranza, qualche raggio di pace, il Sud Sudan ma soprattutto i sud sudanesi, ne hanno bisogno, per poter costrire insieme il futuro che vogliono, speriamo solo che non piova.

E ora Liniers: Forza Argentina!
"Il rigore che lascio' fuori il Messico."
"Oh..doh...muoio.."
"Mesi dopo, Leonardo Di Caprio perde di nuovo l'Oscar come miglior attore"
"E grazie all'Accedamia per questo prestigioso premio"
"Alla tua faccia, Leonardo!"


domenica 27 aprile 2014

Notas de viaje...: Piccola Odissea in Sud Sudan (parte seconda)

Notas de viaje...: Piccola Odissea in Sud Sudan (parte seconda): Il Land Cruiser a Raja, pronto per la partenza...non arriveremo a destinazione  Il vento soffia nei capelli in cima al camion barcolla...

Piccola Odissea in Sud Sudan (parte seconda)

Il Land Cruiser a Raja, pronto per la partenza...non arriveremo a destinazione
 Il vento soffia nei capelli in cima al camion barcollante, proviamo a vedere il lato positivo della situazione. Ridiamo, pensando a quante regole stiamo infrangendo e consolandoci pensando che è un’esperienza unica e probabilmente irripetibile. Il sole tramonta, sono le 7.30 di queste brevi sere africane: le palme, le acacie e i manghi all’orizzonte diventano sagome nere, in lontananza si ergono colonne di fumi, i contadini preparano così i campi per l’aratura, bimbi e bimbe magri e scalzi, con vestiti usurati e strappati portano grossi contenitori d’acqua sulla testa, oppure fratellini infagottati sulla schiena. L’aria si fa fresca ed è quasi subito notte, cala il buio su questa calda, sudata, impolverata ed imprevedibile giornata africana. Scoccano le 8, scatta il coprifuoco per movimenti dentro e fuori dalle città, il Sud Sudan è pur sempre un paese in guerra e questo è uno dei modi per controllare movimenti di ribelli, truppe ed esercito. Nel buio intravediamo il posto di blocco, fari spenti per comunicare la non aggressività del nostro convoglio. “Tutti giù” ci dicono, “non si puo procedere oltre, questa notte dormirete qua, si riparte domani mattina”. Nel buio, senza rete telefonica, non una luce, non una casa, solo sagome di baracche e minacciosi soldati del’SPLA che ci fissano severi. Alcuni parlano fra loro in arabo, non capiamo, ma sembrano rigidi, un soldato, visibilmente più ubriaco degli altri, sentendo Daniela lamentarsi e piagnucolare le aggredisce verbalmente. Controllo degli zaini, torce puntate in faccia e l’ansia di dover trascorrere la notte all’addiaccio, senz’ acqua, letto e cibo in compagnia di una decina di soldati dell’SPLA armati di sbornia e kalashnikov, un’accoppiata poco rassicurante.  Siamo disperati ma ci salva un soldato particolarmente comprensivo, impietositosi dalla nostra situazione (e dalla bugia che gli raccontiamo dicendogli che Daniela sta molto male). Nel più completo buio attraversiamo lo spazio fra le due sbarre del posto di blocco, il respiro affannoso di Daniela si mescola con i miei pensieri che si affollanno nel vano tentativo di trovare una soluzione. Mantengo la calma, proviamo a trovare una macchina per l’ “ammalata” Daniela, ci dicono di aspettare, non si sa ne chi ne cosa, ma aspettiamo. Il soldato, di cui vediamo solo i denti, gli occhi e la canottiera in quanto tutti bianchi e in risalto sulla pelle nera, ci offre due semi-fresche bottiglie d’acqua, un gesto semplice ma spontaneo, generoso e tenero, soprattutto in quella situazione.  Senza capire una parola delle discussioni fra soldati e autista torniamo indietro nel piu completo buio, la ghiaia sotto i piedi, il corpo diventa pesante ma le energie non mancano grazie a tutta l’adrenalina che abbiamo in circolo. Arriva il segnale di mobilitarsi, grazie a Daniela, tutto il camion può ripartire, mamme, bambini, vecchi e soldati risalgono a bordo e lentamente avanziamo nel buio, rotto solo dai fari deboli del vecchio camion azzurrino e dondolante.
All’improvviso la rete telefonica ritorna e ci permette di chimare aiuto da Wau, dove Chaplain il logista e altri nostri colleghi sono in pensiero per noi. Sono ormai le 10 e anche il coprifuoco all’interno della città è scattato, in teoria nessuna automobile può muoversi e nessun individuo può essere in strada a quell’ora, tranne i soldati e i poliziotti incaricati di far rispettare il coprifuoco. Dopo varie telefonate e una certa confusione dovuta alla situazione inaspettata sappiamo che la missione di salvataggio ci sta venendo in contro, ma dovra superare vari posti di blocco, e noi anche. Siamo di nuovo fermi, tutti giu, di nuovo quella frase scioccante: dormirete qui stanotte, soldati diversi, stessa scena, sguardi severi, dialoghi in arabo, soldati ubriachi e armati che ci perquisiscono, svuotare gli zaini un’altra volta, aliti di alcol e parole dure che ci fanno pensare al peggio. Intanto l’attesa dilata il tempo ma alla fine, la bianca auto guidata dal nostro “salvatore” Chaplain compare come un fantasma provvidenziale nella notte di carbone. Dopo una breve discussione, ripartiamo, ma dopo soli 300 metri un posto di blocco volante di ferma e ci chiede spiagazioni, non ci credono, non vogliono lasciarci passare, di nuovo quella frase: “Dormite qui e domani mattina ripartite”, questa volta la situazione e’ meno drammatica, le luci di Wau sono in vista e siamo su un’auto “amica” protetti dallo “zio” Chaplain, un buon uomo alto e lungo, dallo sguardo lucido e dolce che a voltre si perde nei ritmi forsennati delle nostre pazze giornate in ufficio.
Villaggio di Riang Akol, Stato di Warrap, comitato a gricolo all'opera

Alla fine, dopo 15 minuti di contrattazioni e comunicazioni via radio col suo superiore, anche questo posto di blocco ci lascia proseguire, ci sentiamo al sicuro, ma la strada di casa è ancora lunga. Wau, dopo le 10 di sera è spezzata in 2 all’altezza del ponte che separa la città ”vecchia” dalla nuova zona di recente crezione dove la citta si è espansa negli ultimi anni. L’ultimo posto di blocco, torce in faccia anche qua, perquisizione e domande su dove andiamo e che facciamo, rispondiamo con la solita bugia: Daniela sta male e dobbiamo portarla a casa, veniamo da Raja, lavoriamo li a progetti di sviluppo, per favore lasciateci passare. Un altro quarto d’ora di sofferenza, sopportazione e trattative ma alla fine ci lasciano andare. Pensiamo sia fatta, non ci sono più posti di blocco fra il ponte e casa ma all’improvviso in mezzo alla strada, si materializzano 3 fantasmi col kalashnikov a tracolla, 3 soldati che quasi investiamo visto che ci aspettavano in piedi in mezzo alla strada. Dopo altri 5 minuti di spiegazioni, visto che siamo oltre il coprifuoco ci chiedono una piccola “tassa” per poter passare, una tassa davvero esorbitante: 10 pound sud sudanesi, circa 2 euro e 50, il costo di 4 pomodori, per capirci. Vediamo casa ormai, è a circa 300 metri, ora davvero niente di può più fermare, ci assale l’euforia e l’allegria per avercela fatta. Mi sento un po’ un sopravvissuto e penso dentro di me che ormai non ho niente da invidiare a Kapuscinsky, ho affrontato con successo vari posti di blocco, perquisizioni e intimidazioni verbali. Ho sentito il brivido della minaccia e della paura, per me e per Daniela, che in fondo, a Raja, poteva fare a meno di venirci e mi aveva accompagnato in questo inaspettatamente travagliato viaggio di lavoro.
Il cancello azzurrino di casa ACTED si apre ed entriamo in casa. Chaplain dovrà dormire da noi perche a quell’ora non puo più muoversi, per fortuna abbiamo stanze libere, gli do saponetta e asciugamano e gli auguro la buonanotte. Ora sognamo solo una bella doccia rinfrescante e il letto, ma l’ultima sorpresa della giornata è che in casa non c’è acqua, ma siamo talmente sporchi che non ce la sentiamo di andare a dormire con il sudore, la polvere e lo sporco di un giorno di viaggio. Addocchiamo le bottiglie d’acqua minerale nell’angolo, svuotiamo varie dozzine di bottigliette nel secchio di plastica blu e cosi ci facciamo la più costosa doccia della storia. Una bottiglia d’acqua da 600 centilitri qui costa quasi un euro, come minimo avremo usato 20 bottiglie, 20 euro per una doccia. Dopo uno spuntino rapidamente messo insime con quello che c’era in frigo ce ne andiamo a letto, stanchi, frustrati ma anche eccitati dall’avventura appena finita nei migliori dei modi. Inoltre, io, personalmente, da oggi mi sento anche un po’ più vicino a Kapuscinsky.

Enriqueta oggi ci spiega cosa fara' da grande:
Enriqueta: "Da grande saro' una femminista"..."pero' spero che gia non sara' piu' necessario"

sabato 19 aprile 2014

Piccola Odissea in Sud Sudan (parte prima)

Bimbe a Raja
L’ala dell’aereo in rottami della pista di Raja ci passa sopra la testa, l’aereo, arrugginito e dimenticato, relitto di quando l’aeroporto funzionava ed il paese era ancora uno solo. In macchina: Io, Daniela, l’agronomo Ibrahim e l‘autista Faisal alla guida, dopo una mattinata caotica ci siamo imbarcati nel viaggio di ritorno da Raja a Wau, 320 kilometri di terra rossa e polvere, circa 6 ore di dossi, cunette e sobbalzi. Il viaggio procede al meglio, leggo un po’ di Kapuscinsky, racconti della guerra d’Angola su strade come le nostre, ma nel bel mezzo di una guerra civile con mitra e posti di blocco presidiati da soldati giovani, affamati e ubriachi. Un po’ lo invidio per la temerarietà e per aver raccontanto fatti eclatanti di una storia violenta ma lontana ed affascinante. Ammiro il coraggio e la pazzia nel voler raccontare guerre d’altri al rischio della propria vita. Noi, con il nostro fuoristrada bianco, superiamo agevolmente un vecchio e traballante camion carico di sacchi di mais oltre ogni immaginazione, camion ulteriormente appensantito da 7-8 persone sedute in cima ai sacchi, salutiamo con un rapido gesto della mano e procediamo per la nostra strada.
Avvistiamo un ponte e capiamo che per Ibrahim e Faisal arriva il momento della pausa pranzo, asida (praticamente polenta senza sale) e pesce di fiume, fresco. Io e Daniela abbiamo già mangiato i nostri panini coi felafel in macchina. Fa molto caldo, si suda, e ora che siamo fermi ancora di più. Davanti a noi un rettilineo di saliscendi di terra rossa lungo qualche chilometro, fuori tanto sole e un’eterna distesa d’alberi verde chiaro a fare da cornice al nostro viaggio, dietro di noi solo tanta polvere, è il culmine della stagione secca, quando la terra è assetata e gli alberi attendono impazientemente le prime piogge.
All’improvviso, un rumore strano, Faisal si ferma a controllare, abbiamo forato, rapidamente ci mettiamo in azione: Ibrahim ai bulloni, Faisal al crick  ed io alla ruota di scorta cambiamo la ruota e ripartiamo tranquillamente verso Wau. Ma la sfortuna è di nuovo in agguato, e dopo pochi chilometri di saliscendi impolverati siamo di nuovo fermi e perplessi a fissare un pneumatico sgonfio, quello anteriore destro, di nuovo. Il team si riattiva, ma questa volta dobbiamo prendere la seconda ruota di scorta sul tettuccio del Land Cruiser, perplessi ed un po’inquietati cambiamo di nuovo la ruota sapendo che è l’ultima che abbiamo e che se forassimo ancora saremmo bloccati, senza possibilita di telefonare e lontanissimi dal primo centro abitato. Io e Daniela ci guardiamo, preoccupati ed io inizo a pensare, ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va con l’auto e mi sembra che ad ogni sussulto l’auto cadrà in mille pezzi, lasciandoci appiedati in mezzo alle assolate colline che uniscono il Sud Sudan, il Sudan e la Repubblica Centroafricana, luoghi selvaggi ed inesplorati, in passato teatro d’azione del Lord Resistance Army di Joseph Kony, esercito ribelle dai tratti mistico-religiosi, spauracchio di vari governi dell’Africa centrale. E cosi succede l’irreparabile, terza foratura, questa volta su un tratto in discesa dove Faisal fa fatica a controllare l’auto e rischiamo di sbandare, peggiorando ulteriormente la situazione. Silenzio. Il silenzio di chi non sa cosa fare, dire o pensare. Scendiamo tutti e 4 dal’auto esterrefatti, increduli e confusi. Prendo il telefono satellitare ma essendosi acceso nello zaino ha la batteria quasi completamente scarica. La tensione sale e, fra le mosche, le api selvatiche e le mosche tze tze che infestano questa zona riflettere è davvero difficile, non c’è soluzione. Silenzio e domande senza risposta. La disperazione di porta a provare e collegare un caricabatteria per Nokia alimentato con l’accendisigari dell’auto con il caricabatteria con la presa a muro del telefono satellitare, speranza vana e piuttosto frustrante durata pochi minuti.
Dalla striscia rossa che scompare dietro la collina spunta improvvisamente il vecchio, dondolante e sovraccarico camion che trasporta mais e persone che abbiamo superato qualche chilometro prima. In 30 secondi decido di dividere il team, io e Daniela prendiamo un passaggio per andare a chiedere aiuto, Ibrahim e Faisal si fermano con l’auto. Spiace andare via, sopratttutto pensando che transcorreranno li la notte in mezzo ad api e animali selvatici ma anche a rischio di rapina da parte dell’animale piu’ pericoloso, quello a due gambe. Io e Daniela ci arrampichiamo sull’altissimo camion e ci sediamo sui sacchi di mais aggrappandoci dove possibile.

I nostri compagni di viaggio sono molto diversi fra loro. Il primo alla mia sinistra è un soldato, disarmato, in tuta mimetica verde e lucidi anfibi neri, guarda frequentemente me e Daniela e ride, da solo. Dietro di lui, una signora anziana, piccola, magra, rinsecchita, avvolta nei tipici drappi colorati per ripararsi dal vento e dalla polvere. Parla ad intervalli, a volte fitto fitto a volte ripetendo la stessa parola a voce alta, non capisco ma lei sembra divertita. Gli altri passeggeri sono giovani con maglie dell’Arsenal e del Manchester United, a pensarci bene, questo camion è assai rappresentativo del Sud Sudan: guerra, calcio e memoria tradizionale.

(continua)

In attesa della seconda parte, un sorriso con Liniers:
Enriqueta "Una vita piccolina e normale e' gia' qualcosa di straordinariamente incredibile"

domenica 16 febbraio 2014

Uscire dal Sud Sudan

Bambini a Wunriang, Stato Warrap

Il ritmico tintinnio delle scatole metalliche dei lustrascarpe mi sveglia, sette di mattina, bimbi lunghi, magri e coi vestiti stracciati si aggirano per le strade di Wau. Offrono servizio di pulitura e lustratura delle scarpe, il loro kit include una scatola con un po’ di lucido, una spazzola e un paio di ciabatte di gomma da dare al cliente durante l’operazione di lustratura. Apro gli oggi in questa mattina calda, l’aria calda entra dalla finestra, ho tolto la zanzariera, con la stagione secca non ci sono piu zanzare. Il cielo del Sud Sudan è sereno, azzurro chiaro, pulito, la gola ed il naso secchi, non piove da fine ottobre, la polvere si accumula dappertutto, si appiccica al collo sudato, si incolla al computer, si deposita su tutti gli oggetti di casa che rimangono immobili per qualche giorno. Uscendo per strada a mezzogiorno, sole a picco e brezza leggera, si ha la sensazione di trovarsi davanti ad un immenso phon.
La stagione secca, asciuga le strade e scalda gli animi, sono stati due mesi difficili per il Sud Sudan. Un lunedi mattina all’improvviso tutto è cambiato, inaspettatamente. Alle otto e mezza arrivo in ufficio, c’è tensione nell’aria, non ricordo come l’ho saputo, ma mi dicono che girano voci di un colpo di Stato a Juba, scontri per le strade e morti. La tensione cresce, mandiamo a casa quasi tutti, rimaniamo io e il logista, Chaplain, per assicurarci che tutto sia a posto ed in ordine, scatta subito la preparazione per l’emergenza: radioline cariche, telefono satellitare nel caso blocchino la rete telefonica per ostacolare i ribelli, ricariche telefoniche a volonta’, cibo in scatola, pasta, riso, acqua da tenere in casa, la confusione potrebbe durare dei giorni, dicono. Radio Miraya, principale emittente del paese e’ muta, non un bel segno. Ci rifugiamo a casa, le strade sono deserte, regna un silenzio surreale, parcheggiamo la macchina col muso in avanti pronti a partire, se serve, verso UNMISS (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan). Proprio a UNMISS, in altre città, trovano da subito rifugio migliaia di sudsudanesi shoccati, terrorizzati dalle violenze e dalle uccisioni che stanno facendo ripiombare il paese nell’incubo pluridecennale della guerra da cui questo popolo fragile sta lentamente provando a riprendersi. Torna la paura, evidente sulle facce preoccupate di chi sa cosa significa la guerra. Per noi è diverso, per noi la guerra è una noia da studiare sui libri di storia, qualcosa di affascinante nei film americani oppure al massimo un commovente servizio del telegiornale che ci rovina la cena. Giovani europei, da due generazioni senza guerra (per fortuna) ci si ritrova catapultati in dinamiche, sensazioni ed emozioni nuove, strane, confuse. Al massimo abbiamo sentito la guera raccontata dai nonni ma per noi è una cosa lontana, finchè non ti trovi all’aeroporto, provando ad uscire dal paese, a destra, il bianco cancello d’accesso al rosso e polveroso piazzale dell’aeroporto, a sinistra, qualche centinaio di soldati in divisa, seduti per terra con il fucile in mano. Cantano, non capisco le parole ma l’eco di quelle voci fa gelare il sangue nelle vene. Ci mettiamo in coda, in piedi, valigia in mano, fuori dall’aeroporto, la signora del controllo sicurezza è in ritardo. 
Donne a Wunriang, Stato Warrap

Per rompere la tensione ed ingannare l’attesa si fa una chiaccherata, non vediamo l’ora di andarcene, Daniela mi aspetta a Dar es Salaam, 2 coincidenze da Wau: Juba e poi Entebbe, spero di farcela. L’intero traffico aereo nazionale è bloccato, perchè, oltre alle violenze a Juba, il giorno prima è esploso il pneumatico di un aereo in atterraggio che ha bloccato decolli e atterraggi per l’intera giornata. Il sovraccarico sulle compagnie aeree è allucinante, nel paese tanti vogliono andarsene, chi non ha volato negli  scorsi vuole volare, chi aveva prenotato per oggi pure. Sul volo da Wau a Juba supplico l’assistente di volo di chiedere che l’aereo da Juba ad Entebbe mi aspetti. Per tutta risposta 20 minuti dopo mi dice che è gia partito, addirittura in anticipo. Quello che non sapevo è che invece dei soliti 2 voli Juba-Entebbe oggi ce ne saranno 6 (solo con Air Uganda) e quindi sono partiti per iniziare a smaltire i passeggeri dei giorni precedenti. La tensione sale, l’aeroporto di Juba, in giorni normali un girone d’inferno, e’ oggi la realizzazione pratica dell’anarchia. I soldati all’entrata provano a gestire una fila di passeggeri stanchi, stressati ed impauriti. In qualche modo riesco ad entrare e mi metto in fila per il check in, nessuno sa e capisce nulla, ci si mette in piedi da qualche parte infilandosi nei buchi e spingendo per raggiungere il banco qualche minuto prima della persona a fianco a te, un vero gioco al massacro. L’aspetto positivo è che è impossibile cadere perche si è spinti in maniera uguale da tutti i lati come ad un concerto rock, ma senza musica, cantanti, luci e chitarre, solo tanto sudore e nervosismo. Dopo circa un’ora e mezza al check-in ottengo il “biglietto” c’e il numero del volo ma non si sa esattamente se e quando il volo partira’, alla domanda di quando partira il volo, le addette della Air Uganda, le quali meritano un premio per la calma che riescono a mantenere davanti a quella folla di passeggeri vocianti e arrabbiati, rispondono solo: “Entra e aspetta”. Grazie, penso frustrato dentro di me.
Seconda fila, il timbro d’uscita sul passaporto, qui ci sono 3 file (che si intersecano con quelle del check-in e con la gente che va a depositare i bagagli sul nastro trasportatore) mi metto a quella all’estrema destra, la più breve, sbagliando scelta, perche l’addetta, una donna sulla quarantina, è di una lentezza esasperante, anche per questa fila ci vuole quasi un’ora. Il tutto succede in circa 20 metri quadrati che separano il check-in dallo sportello dell’immigrazione.

Ora inizia il bello, la fila vera e propria, le spalle mi fanno già male, tolgo lo zaino e lo appoggio per terra. Solitamente la coda per entrare nella zona d’attesa dell’aerporto di Juba è un assembramento di persone che conserva la parvenza di una fila, magari 2-3 file parallele che si incontrano ad imbuto sulla porta d’entrata, ma, di solito, la parvenza di fila c’è. Questa volta siamo come tanti granelli di sabbia che vogliono passare dall’altra parte della clessidra nello stesso momento. Per qualche motivo però, la clessidra e’ piena e quindi per circa un’ora e mezza non mi sposto di un solo centrimentro in avanti. Fra aerei delle ambasciate, voli speciali, charter privati (1,500 dollari a testa un volo di un’ora e poco più per  Kampala) e confusione generale di un aeroporto troppo piccolo e troppo disorganizzato. La clessidra si è intoppata. Sono quasi le due, sono in fila dalle 9 e 40 e avro percorso al massimo 40 metri sommando le 3 file, leggo, ma la preoccupazione di perdere la coincidenza per Dar es Salaam non mi lascia stare. Provo a chiamare Daniela, non ho soldi, il mio amico Ray, mi presta un Blackberry che non so usare. Avviso Daniela che ancora non so se ce la faro’, il volo da Entebbe a Dar es Salaam parte verso le 4 e mezza. Verso le 3 del pomeriggio riesco a superare il controllo sicurezza, più inutile del solito viste le circostanze. L’addetto nemmeno guarda lo schermo dei raggi X, la sala d’attesa è piena in ogni suo angolino: giapponesi col cappello, famiglie sud sudanesi con bimbi in braccio, americani che parlano a voce altissima lamentandosi per la situazione, volti tirati, stanchi, a volte disperati. Io credo di aver perso il volo per Dar, passo altre 3 ore e mezza di attesa con Ray e con il suo collega Herbert, i quali, hanno amici che passano loro informazioni sui voli in partenza ed in arrivo: il mio, mai. Una vera tortura che rende l’attesa snerbante. Alle 6 scatta il coprifuoco a Juba, quindi se l’ aereo non arriva ci tocca dormire in aeroporto, impossibile muoversi per la città, in questi giorni il coprifuoco è molto rigido e farsi sparare addosso non è difficile. Alle 6 e 20, all’ imbrunire, ecco gli aerei Air Uganda, tre, tutti insieme, tutti i passeggeri dei tre voli si affrettano alla stretta porta d’ uscita e di forza usciamo tutti in mezzo alla pista di atterraggio cercando il nostro aereo con il biglietto in mano, come essere alla stazione degli autobus di una citta’ che non si conosce, solo che qui, la destinazione non è scritta da nessuna parte. Sudo, ma spero ancora di farcela, nel frattempo ho pensato a Daniela che dovra tornare da sola, ho pensato di comprare un volo per il Cairo dove potrei ancora raggiungerla e arrivare insieme a Roma, ho pensato tante cose ma mai avrei pensato che Air Uganda avrebbe ritardato il volo per Dar es Salaam di 4 ore solo per aspettare me ed un altro passeggero, tanzaniano, che lavora all’UNICEF (con cui scopro incredibilmente di avere un’amica in comune); di corsa saliamo sul volo per Dar es Saalam, con una meritata e freschissima birra Tusker mi rilasso e sono felice, volo verso Dar, e verso Daniela. Arrivo a Dar, caldo umido ad accogliermi, sono stanco, le spalle fanno male per le tante ore di viaggio ma soprattutto per la lunga attesa in piedi, faccio un visto breve, esco, passo la porta scorrevole...finalmente.

Ora una vignetta sulla neve, con Liniers e i pinguini della Patagonia:
"E' uguale uguale"

martedì 14 gennaio 2014

Africa, asilo a cielo aperto

Bambini masaai in Tanzania (photo by: Daniela Biocca)
Bambini, tanti bambini, bambini ovunque, a volte, in Africa, si ha la sensazione di trovarsi in un immenso asilo, un asilo senza pareti e senza tetto, se non quello delle palme e dei manghi che offrono riparo dal sole africano. Bambini in ogni luogo, magri, grassi, sporchi, puliti, con la pancia gonfia, coi capelli impolverati o curatissimi come le dive del cinema. Bambini allegri e piagnucoloni, svegli e imbranati, curiosi e disinteressati, timidi e spavaldi, sorridenti e arrabbiati, delusi e stupiti, imbarazzati e disinvolti ma sempre e comunque bambini.
Bambini rannicchiati in cerchio davanti ad un fuoco alimentatato dall’ immondizia, aria fresca nella mattina di Wau, piccoli, magri bimbi dinka, vestititi con giacche trovate chissa’ dove, ognuno con la sua bottiglietta di plastica, no, non per bere ma per non sentire la fame, inalando i vapori chimici della colla bianca, loro cibo, acqua e mamma.
Bambini piccoli e grandi che giocano con il fuoco dell’erba secca di questa torrida stagione in Sud Sudan, l’erba diventa gialla, l’aria secca come paglia, il vento dal nord porta la polvere rossa che ti entra dentro. L’odore dell’erba bruciata aleggia nell’aria, i bambini sorridono e giocano con le fiamme piu’ grandi di loro a pochi metri da casa ma lontano dallo sguardo di una mamma che non c’e’ o non ci vuole essere.
Bambini che ti chiamano per nome, ma con il nome sbagliato, il nome di altre bianche fugaci apparizioni nel loro universo: opoto, mzungu, kawaja. Voci allegre che risuoneranno nelle mie orecchie per sempre migliaia di voci diverse fuse in un ricordo unico e indistito, senza faccia ne’ sorriso specifico ma come un mosaico di volti, occhi, nasi, sopracciglia, guance tonde e capelli ricci e crespi che formano un immenso puzzle di bambino.
Baraka - Bagamoyo (photo by Daniela Biocca)

Bambini e bambine a Bagamoyo, in Tanzania, che ballano scalzi mimando i movimenti degli adulti, pantaloncini corti e strappati oppure troppo lunghi, ereditati dal fratello maggiore, bambine coi capelli intrecciati, con perline colorate che adornano la piccola testolina tonda che contiene chissa’ quali sogni, speranze e fantasie che probabilmente seccheranno con l’entrata nell’eta’ adulta. Piccoli artisti circensi e ballerini in erba che si contorcono al ritmo di una radio logora ma potente sotto il sole caldo del tramonto africano.
Bambini che ti corrono in contro gridando e sorridendo afferrandoti e trascinandoti per le braccia, un’orda infantile invincibile, un esercito lillipuziano di denti bianchi in bocche che si aprono in teneri sorrisi luminosi di innocenza pura. Voci argentine che chiedono domande per il gusto di chiederle e di stabilire un contatto, sempre le stesse: “Come ti chiami? dove vai? cosa hai comprato?”
Bambini intenti a giocare sulla sabbia, ginocchia impolverate e vestiti di seconda mano oppure vestiti nuovi di plastica cinese. Le palme che cantano al ritmo del vento dell’Oceano, una moto che passa accelerando in lontananza, un autobus che riparte carico di gente sudata sotto il cocente sole del mezzogiorno. I bambini assorti nel loro mondo fatto di sabbia, pietre, bastoncini, bottiglie trovate per terra e carte colorate. Cucinano, progettano percorsi per poi stufarsi e costruire un trampolino da cui saltare e fare acrobazie e volteggi in aria.
Bambini che sorridono, timidi e abbassano lo sguardo, passano tenendosi per mano all’ombra di un mango che presto maturera’e dara loro l’ebbrezza della stagionale caccia al mango, delizioso premio da gustare indisturbati nel lento e sonnecchioso sabato pomeriggio, quando non si va a scuola e c’e piu tempo per divertirsi.
Bambini in Tanzania (photo by: Daniela Biocca)

Bambini che passano indifferenti, intenti a discutere di giochi con la stessa serieta’di  maturi ed impegnati uomini di affari che discutono di borsa e investimenti finanziari. Voce fintamente grossa per darsi importanza e dimostrare di capirne di piu degli altri, intense discussioni e a volte anche liti causate da chi non rispetta le regole del gruppo.
Bambini che seduti per terra a giocare ti chiedono soldi, foto, caramelle, penne o bottiglie di plastica e tu a rispondere: no, mi spiace, non ne ho...no, mi spiace sono finite...
Bambini di pochi mesi, piccoli ed infiesi nascosti in fagotti portati in spalla, calmi che dormono placidamente su un autobus affollato e rumoroso per poi svegliarsi al primo scossone e piangere finche la mamma non rimedia porgendo il suo seno, rimedio naturale ed universale che placa ansie e paure di tutti i bambini.
Bambini minuscoli, neonati di qualche settimana, con in testa un berretto di lana trasportati in autobus avvolti in una montagna di coperte. Fuori, 40 gradi e quell’umidita tropicale che rende la pelle umida e appiccicaticcia. Il sole picchia forte sul tetto dell’autobus, un signore grida in continuazione al telefono e una signora sapientona e chiassosa che con la sua voce stridula rende il viaggio una prova di resistenza e i con i suoi 100 chili ti obbliga a stringerti in 30 centimetri di sedile con le gambe rannicchiate.
Bambini che ti osservano, curiosi con i loro occhi grandi, lucidi e profondi, vivaci e sempre in movimento scrutano i tuoi capelli strani, quella barba diversa da quella dei loro padri. Allungano una mano per toccare, quasi che barba capelli e  naso fossero finti, ridono. Un attimo dopo scappano correndo con le loro gambette agili e i loro piedi scalzi che lasciano due impronte: una sulla sabbia e una sul tuo cuore.

Bambini in Africa, questo immenso asilo a cielo aperto dove ogni giorno migliaia di bambini nascono, ridono, giocano ma dove anche spesso vengono maltratti, rapiti, violentati, abbandonati, trattati come oggetti, scambiati per una mucca o un chilo di farina da quegli stessi adulti che a parole dicono di amarli e di volerne tanti, il piu possibile, strani, gli esseri umani adulti.

Liniers che con la bambina Enriqueta ci parla di semplicita' e speranza:
"Beh, quest'anno si presenta gia come interessante"