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domenica 17 febbraio 2013

Bentiu, ultima corsa



Fiato corto, il fango secco scricchiola sotto i piedi, una mattina di gennaio a Bentiu, la mia ultima corsa in sud Sudan. Per la verità sono state poche, pigrizia, lavoro, alta mobilità fra i 2 campi rifugiati e la base di Bentiu, tanto fango e poi la pesante malaria di Ottobre hanno contribuito a rendere le mie corse davvero sporadiche. Tempo di bilanci e di “ultime volte”.
L’ultima tappa alla panetteria di Mohamed, l’allegro signore, anzianotto e pacioccone, dalla pelle color del rame, incorniciata da una barba d’argento ed un cappello bianco, cilindrico e un po’ consumato, il suo negozio è nel souk (mercato) di Rubkona, nelle vicinanze l’ufficio di CARE International e di un paio di agenzie delle Nazione Unite, vende il più buon pane di tutta Bentiu, morbido, lievitato, soffice, al contrario dell’ esh, piatto, bianco, non lievitato e senza sale, quello che spesso in Italia chiamiamo “pane arabo”. Mohamed è stata una tappa fondamentale di ogni visita sul campo. Sveglia presto, preparativi pre-partenza, un occhio alla mail, una saluto a Daniela su Skype e poi via, Land Cruiser carico di materiale, telefono satellitare carico, radiotrasmittenti accese e quell’eccitazione mista ad entusiasmo che sempre c’è nell’aria all’inizio di ogni visita sul campo, che poi altro non è che un viaggio, di lavoro, ma pur sempre un viaggio.
L’ultima visita sul campo, l’auto dondola lenta per le vie di Bentiu, donne magrissime con enormi carichi in testa oppure sedute al mercato improvvisato a vendere zucchero, di cui i sudsudanesi sono assai ghiotti. Polvere, c’è tanta polvere in questo periodo, da due mesi niente piogge, l’ultima pioggia che ho visto è stata quella che mi ha fatto passare la notte in macchina con Afayo, a fine Ottobre, bloccati nel fango in attesa di soccorsi. Appena fuori Bentiu tappa da Mohamed, pane e qualche soda, compro anche un po’ di sale, da aggiungere al pane di Mohamed per insaporirlo un po’. Poi via verso nord, attraversando i campi petroliferi, le enormi pianure dominate da branchi di centinaia di mucche al pascolo, controllate da magrissimi pastori dinka, a volte provvisti di mitra AK-47, anche conosciuto come Kalashnikov, secondo voci ben informati reperibile senza in zona (ovviamente senza licenza) per circa 200 dollari, lo stipendio mensile della nostra donna delle pulizie-cuoca.
Ultima visita a Pariang, qualche successo e molte battaglie perse, 6 mesi intensi fra campi rifugiati allagati, campi che sono acquitrini, i ragazzi del progetto che cercano di far crescere pomodori, melanzane e cipolle su una terra difficile, prima molle come argilla poi dura come il carbone. Le lunghe giornate a camminare per Pariang con Kuol e le centinaia di buche scavate per niente per piantare alberi che poi abbiamo dovuto spostare di nuovo, alti a bassi di 6 mesi vissuti intensamente, fra la mancanza di elettricità, la rete del telefonino che c’è come se non ci fosse e tanti piatti di riso e lenticchie (a proposito, incredibile a dirsi ma mi mancano già un bel po’ le lenticchie).
L’ultima volta a Nyeel, il campo rifugiati in miniatura ma dove si trova gente dal cuore grande, e a volte anche dalla testa dura, gente do montagna, montagne Nuba, diretti, pronti a criticare errori ma anche a riconoscere quando le cose vanno per il verso giusto, gente orgogliosa ma anche africanamente ospitale e sorridente.


Ultimi sguardi su una terra aspra, dalla savana secca che dall’altro diventa una pelle di leopardo a causa degli enormi ed estesissimi incendi di questo periodo dell’anno, volontari o meno rendono l’aria carica di cenere che penetra in casa e si deposita ovunque, il cielo diventa più opaco e aleggia, portato dal vento, un forte odore di erba bruciata.
Ultima serata al Grand Hotel, con i colleghi di altre ONG, sedie di plastica, una notiziario in kiswahili lla TV, birra Red Horse calda, qualche verde latina di Heineken sul tavolo, sigarette keniane di sottomarca, chiacchere indistinte, racconti di incertezza e frustrazioni, io alzo gli occhi e guardo il cielo stellato di questo Sud Sudan così instabile e cosi complesso, affascinante e  selvaggio.
Ultimo abbraccio a Michael nel buio della notte e penso ai 6 mesi trascorsi insieme, un grande amico, tante serate, tante ore di lavoro e sudore insieme, tante notti in tenda, ognuno chiuso un po’nel suo mondo a ritrovare le energie per affrontare la giornata successiva, come lumache che si ritirano nel proprio guscio, la sera si parla poco, bisogna staccare, musica, affetti, qualche telefonata oltre confine e qualche serie televisiva.
Sto sedimentando ora l’esperienza in Sud Sudan, ci impiego tempo ad elaborare emozioni, esperienze, punti di vista, da fuori sarà più facile ora che ho lasciato la terra dei pastori dinka, dei falchi e delle pianure del Nilo a perdita d’occhio.

Il sempre saggio Liniers:
"Non devo sprecare il mio tempo"