Bambini a Wunriang, Stato Warrap |
Il ritmico tintinnio
delle scatole metalliche dei lustrascarpe mi sveglia, sette di mattina, bimbi
lunghi, magri e coi vestiti stracciati si aggirano per le strade di Wau. Offrono
servizio di pulitura e lustratura delle scarpe, il loro kit include una scatola
con un po’ di lucido, una spazzola e un paio di ciabatte di gomma da dare al
cliente durante l’operazione di lustratura. Apro gli oggi in questa mattina
calda, l’aria calda entra dalla finestra, ho tolto la zanzariera, con la
stagione secca non ci sono piu zanzare. Il cielo del Sud Sudan è sereno, azzurro
chiaro, pulito, la gola ed il naso secchi, non piove da fine ottobre, la polvere
si accumula dappertutto, si appiccica al collo sudato, si incolla al computer,
si deposita su tutti gli oggetti di casa che rimangono immobili per qualche
giorno. Uscendo per strada a mezzogiorno, sole a picco e brezza leggera, si ha
la sensazione di trovarsi davanti ad un immenso phon.
La stagione
secca, asciuga le strade e scalda gli animi, sono stati due mesi difficili per
il Sud Sudan. Un lunedi mattina all’improvviso tutto è cambiato,
inaspettatamente. Alle otto e mezza arrivo in ufficio, c’è tensione nell’aria,
non ricordo come l’ho saputo, ma mi dicono che girano voci di un colpo di Stato
a Juba, scontri per le strade e morti. La tensione cresce, mandiamo a casa
quasi tutti, rimaniamo io e il logista, Chaplain, per assicurarci che tutto sia
a posto ed in ordine, scatta subito la preparazione per l’emergenza: radioline
cariche, telefono satellitare nel caso blocchino la rete telefonica per
ostacolare i ribelli, ricariche telefoniche a volonta’, cibo in scatola, pasta,
riso, acqua da tenere in casa, la confusione potrebbe durare dei giorni, dicono.
Radio Miraya, principale emittente del paese e’ muta, non un bel segno. Ci rifugiamo
a casa, le strade sono deserte, regna un silenzio surreale, parcheggiamo la
macchina col muso in avanti pronti a partire, se serve, verso UNMISS (Missione
delle Nazioni Unite in Sud Sudan). Proprio a UNMISS, in altre città, trovano da
subito rifugio migliaia di sudsudanesi shoccati, terrorizzati dalle violenze e
dalle uccisioni che stanno facendo ripiombare il paese nell’incubo
pluridecennale della guerra da cui questo popolo fragile sta lentamente
provando a riprendersi. Torna la paura, evidente sulle facce preoccupate di chi
sa cosa significa la guerra. Per noi è diverso, per noi la guerra è una noia da
studiare sui libri di storia, qualcosa di affascinante nei film americani
oppure al massimo un commovente servizio del telegiornale che ci rovina la cena.
Giovani europei, da due generazioni senza guerra (per fortuna) ci si ritrova
catapultati in dinamiche, sensazioni ed emozioni nuove, strane, confuse. Al
massimo abbiamo sentito la guera raccontata dai nonni ma per noi è una cosa
lontana, finchè non ti trovi all’aeroporto, provando ad uscire dal paese, a
destra, il bianco cancello d’accesso al rosso e polveroso piazzale
dell’aeroporto, a sinistra, qualche centinaio di soldati in divisa, seduti per
terra con il fucile in mano. Cantano, non capisco le parole ma l’eco di quelle
voci fa gelare il sangue nelle vene. Ci mettiamo in coda, in piedi, valigia in
mano, fuori dall’aeroporto, la signora del controllo sicurezza è in ritardo.
Donne a Wunriang, Stato Warrap |
Per rompere la tensione ed ingannare l’attesa si fa una chiaccherata, non
vediamo l’ora di andarcene, Daniela mi aspetta a Dar es Salaam, 2 coincidenze
da Wau: Juba e poi Entebbe, spero di farcela. L’intero traffico aereo nazionale
è bloccato, perchè, oltre alle violenze a Juba, il giorno prima è esploso il
pneumatico di un aereo in atterraggio che ha bloccato decolli e atterraggi per
l’intera giornata. Il sovraccarico sulle compagnie aeree è allucinante, nel
paese tanti vogliono andarsene, chi non ha volato negli scorsi vuole volare, chi aveva prenotato per
oggi pure. Sul volo da Wau a Juba supplico l’assistente di volo di chiedere che
l’aereo da Juba ad Entebbe mi aspetti. Per tutta risposta 20 minuti dopo mi
dice che è gia partito, addirittura in anticipo. Quello che non sapevo è che
invece dei soliti 2 voli Juba-Entebbe oggi ce ne saranno 6 (solo con Air
Uganda) e quindi sono partiti per iniziare a smaltire i passeggeri dei giorni
precedenti. La tensione sale, l’aeroporto di Juba, in giorni normali un girone
d’inferno, e’ oggi la realizzazione pratica dell’anarchia. I soldati
all’entrata provano a gestire una fila di passeggeri stanchi, stressati ed
impauriti. In qualche modo riesco ad entrare e mi metto in fila per il check
in, nessuno sa e capisce nulla, ci si mette in piedi da qualche parte
infilandosi nei buchi e spingendo per raggiungere il banco qualche minuto prima
della persona a fianco a te, un vero gioco al massacro. L’aspetto positivo è
che è impossibile cadere perche si è spinti in maniera uguale da tutti i lati
come ad un concerto rock, ma senza musica, cantanti, luci e chitarre, solo
tanto sudore e nervosismo. Dopo circa un’ora e mezza al check-in ottengo il “biglietto” c’e il numero del volo ma non si sa
esattamente se e quando il volo partira’, alla domanda di quando partira il
volo, le addette della Air Uganda, le quali meritano un premio per la calma che
riescono a mantenere davanti a quella folla di passeggeri vocianti e arrabbiati,
rispondono solo: “Entra e aspetta”. Grazie, penso frustrato dentro di me.
Seconda fila, il
timbro d’uscita sul passaporto, qui ci sono 3 file (che si intersecano con
quelle del check-in e con la gente che va a depositare i bagagli sul nastro
trasportatore) mi metto a quella all’estrema destra, la più breve, sbagliando
scelta, perche l’addetta, una donna sulla quarantina, è di una lentezza
esasperante, anche per questa fila ci vuole quasi un’ora. Il tutto succede in
circa 20 metri quadrati che separano il check-in dallo sportello
dell’immigrazione.
Ora inizia il
bello, la fila vera e propria, le spalle mi fanno già male, tolgo lo zaino e lo
appoggio per terra. Solitamente la coda per entrare nella zona d’attesa
dell’aerporto di Juba è un assembramento di persone che conserva la parvenza
di una fila, magari 2-3 file parallele che si incontrano ad imbuto sulla porta
d’entrata, ma, di solito, la parvenza di fila c’è. Questa volta siamo come
tanti granelli di sabbia che vogliono passare dall’altra parte della clessidra
nello stesso momento. Per qualche motivo però, la clessidra e’ piena e quindi
per circa un’ora e mezza non mi sposto di un solo centrimentro in avanti. Fra
aerei delle ambasciate, voli speciali, charter privati (1,500 dollari a testa
un volo di un’ora e poco più per
Kampala) e confusione generale di un aeroporto troppo piccolo e troppo
disorganizzato. La clessidra si è intoppata. Sono quasi le due, sono in fila
dalle 9 e 40 e avro percorso al massimo 40 metri sommando le 3 file, leggo, ma
la preoccupazione di perdere la coincidenza per Dar es Salaam non mi lascia
stare. Provo a chiamare Daniela, non ho soldi, il mio amico Ray, mi presta un
Blackberry che non so usare. Avviso Daniela che ancora non so se ce la faro’,
il volo da Entebbe a Dar es Salaam parte verso le 4 e mezza. Verso le 3 del
pomeriggio riesco a superare il controllo sicurezza, più inutile del solito
viste le circostanze. L’addetto nemmeno guarda lo schermo dei raggi X, la sala
d’attesa è piena in ogni suo angolino: giapponesi col cappello, famiglie sud
sudanesi con bimbi in braccio, americani che parlano a voce altissima
lamentandosi per la situazione, volti tirati, stanchi, a volte disperati. Io
credo di aver perso il volo per Dar, passo altre 3 ore e mezza di attesa con Ray
e con il suo collega Herbert, i quali, hanno amici che passano loro informazioni
sui voli in partenza ed in arrivo: il mio, mai. Una vera tortura che rende
l’attesa snerbante. Alle 6 scatta il coprifuoco a Juba, quindi se l’ aereo non
arriva ci tocca dormire in aeroporto, impossibile muoversi per la città, in
questi giorni il coprifuoco è molto rigido e farsi sparare addosso non è
difficile. Alle 6 e 20, all’ imbrunire, ecco gli aerei Air Uganda, tre, tutti
insieme, tutti i passeggeri dei tre voli si affrettano alla stretta porta d’ uscita
e di forza usciamo tutti in mezzo alla pista di atterraggio cercando il nostro
aereo con il biglietto in mano, come essere alla stazione degli autobus di una
citta’ che non si conosce, solo che qui, la destinazione non è scritta da
nessuna parte. Sudo, ma spero ancora di farcela, nel frattempo ho pensato a
Daniela che dovra tornare da sola, ho pensato di comprare un volo per il Cairo
dove potrei ancora raggiungerla e arrivare insieme a Roma, ho pensato tante
cose ma mai avrei pensato che Air Uganda avrebbe ritardato il volo per Dar es
Salaam di 4 ore solo per aspettare me ed un altro passeggero, tanzaniano, che
lavora all’UNICEF (con cui scopro incredibilmente di avere un’amica in comune);
di corsa saliamo sul volo per Dar es Saalam, con una meritata e freschissima
birra Tusker mi rilasso e sono felice, volo verso Dar, e verso Daniela. Arrivo
a Dar, caldo umido ad accogliermi, sono stanco, le spalle fanno male per le
tante ore di viaggio ma soprattutto per la lunga attesa in piedi, faccio un
visto breve, esco, passo la porta scorrevole...finalmente.
Ora una vignetta sulla neve, con Liniers e i pinguini della Patagonia:
"E' uguale uguale"
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