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Bimbe a Raja |
L’ala dell’aereo in rottami della pista di Raja ci passa sopra la testa, l’aereo,
arrugginito e dimenticato, relitto di quando l’aeroporto funzionava ed il paese
era ancora uno solo. In macchina: Io, Daniela, l’agronomo Ibrahim e l‘autista
Faisal alla guida, dopo una mattinata caotica ci siamo imbarcati nel viaggio di
ritorno da Raja a Wau, 320 kilometri di terra rossa e polvere, circa 6 ore di
dossi, cunette e sobbalzi. Il viaggio procede al meglio, leggo un po’ di Kapuscinsky,
racconti della guerra d’Angola su strade come le nostre, ma nel bel mezzo di
una guerra civile con mitra e posti di blocco presidiati da soldati giovani,
affamati e ubriachi. Un po’ lo invidio per la temerarietà e per aver
raccontanto fatti eclatanti di una storia violenta ma lontana ed affascinante. Ammiro
il coraggio e la pazzia nel voler raccontare guerre d’altri al rischio della
propria vita. Noi, con il nostro fuoristrada bianco, superiamo agevolmente un
vecchio e traballante camion carico di sacchi di mais oltre ogni immaginazione,
camion ulteriormente appensantito da 7-8 persone sedute in cima ai sacchi,
salutiamo con un rapido gesto della mano e procediamo per la nostra strada.
Avvistiamo un ponte e capiamo che per Ibrahim e Faisal arriva il momento
della pausa pranzo, asida (praticamente
polenta senza sale) e pesce di fiume, fresco. Io e Daniela abbiamo già mangiato
i nostri panini coi felafel in
macchina. Fa molto caldo, si suda, e ora che siamo fermi ancora di più. Davanti
a noi un rettilineo di saliscendi di terra rossa lungo qualche chilometro, fuori
tanto sole e un’eterna distesa d’alberi verde chiaro a fare da cornice al
nostro viaggio, dietro di noi solo tanta polvere, è il culmine della stagione
secca, quando la terra è assetata e gli alberi attendono impazientemente le
prime piogge.
All’improvviso, un rumore strano, Faisal si ferma a controllare, abbiamo
forato, rapidamente ci mettiamo in azione: Ibrahim ai bulloni, Faisal al crick ed io alla ruota di scorta cambiamo la ruota e
ripartiamo tranquillamente verso Wau. Ma la sfortuna è di nuovo in agguato, e
dopo pochi chilometri di saliscendi impolverati siamo di nuovo fermi e
perplessi a fissare un pneumatico sgonfio, quello anteriore destro, di nuovo.
Il team si riattiva, ma questa volta dobbiamo prendere la seconda ruota di
scorta sul tettuccio del Land Cruiser, perplessi ed un po’inquietati cambiamo
di nuovo la ruota sapendo che è l’ultima che abbiamo e che se forassimo ancora
saremmo bloccati, senza possibilita di telefonare e lontanissimi dal primo
centro abitato. Io e Daniela ci guardiamo, preoccupati ed io inizo a pensare,
ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va con l’auto e mi sembra che ad
ogni sussulto l’auto cadrà in mille pezzi, lasciandoci appiedati in mezzo alle
assolate colline che uniscono il Sud Sudan, il Sudan e la Repubblica
Centroafricana, luoghi selvaggi ed inesplorati, in passato teatro d’azione del
Lord Resistance Army di Joseph Kony, esercito ribelle dai tratti
mistico-religiosi, spauracchio di vari governi dell’Africa centrale. E cosi
succede l’irreparabile, terza foratura, questa volta su un tratto in discesa
dove Faisal fa fatica a controllare l’auto e rischiamo di sbandare, peggiorando
ulteriormente la situazione. Silenzio. Il silenzio di chi non sa cosa fare, dire
o pensare. Scendiamo tutti e 4 dal’auto esterrefatti, increduli e confusi.
Prendo il telefono satellitare ma essendosi acceso nello zaino ha la batteria
quasi completamente scarica. La tensione sale e, fra le mosche, le api
selvatiche e le mosche tze tze che infestano questa zona riflettere è davvero
difficile, non c’è soluzione. Silenzio e domande senza risposta. La
disperazione di porta a provare e collegare un caricabatteria per Nokia alimentato
con l’accendisigari dell’auto con il caricabatteria con la presa a muro del telefono
satellitare, speranza vana e piuttosto frustrante durata pochi minuti.
Dalla striscia rossa che scompare dietro la collina spunta improvvisamente
il vecchio, dondolante e sovraccarico camion che trasporta mais e persone che
abbiamo superato qualche chilometro prima. In 30 secondi decido di dividere il
team, io e Daniela prendiamo un passaggio per andare a chiedere aiuto, Ibrahim
e Faisal si fermano con l’auto. Spiace andare via, sopratttutto pensando che
transcorreranno li la notte in mezzo ad api e animali selvatici ma anche a
rischio di rapina da parte dell’animale piu’ pericoloso, quello a due gambe. Io
e Daniela ci arrampichiamo sull’altissimo camion e ci sediamo sui sacchi di
mais aggrappandoci dove possibile.
I nostri compagni di viaggio sono molto diversi fra loro. Il primo alla mia
sinistra è un soldato, disarmato, in tuta mimetica verde e lucidi anfibi neri,
guarda frequentemente me e Daniela e ride, da solo. Dietro di lui, una signora
anziana, piccola, magra, rinsecchita, avvolta nei tipici drappi colorati per
ripararsi dal vento e dalla polvere. Parla ad intervalli, a volte fitto fitto a
volte ripetendo la stessa parola a voce alta, non capisco ma lei sembra
divertita. Gli altri passeggeri sono giovani con maglie dell’Arsenal e del Manchester United, a pensarci bene, questo camion è assai
rappresentativo del Sud Sudan: guerra, calcio e memoria tradizionale.
(continua)
(continua)
In attesa della seconda parte, un sorriso con Liniers:
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Enriqueta "Una vita piccolina e normale e' gia' qualcosa di straordinariamente incredibile" |
Bel pezzo Stefano. Un abbraccio forte e spero stiate bene.
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