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domenica 2 dicembre 2012

Petrolio, falchi e avvoltoi



Il camino fuma in lontananza, “hanno fatto ripartire la produzione di petrolio”, sostiene laconico Afayo: piccolo, magro, spalle larghe, capelli rasati a zero come la maggior parte dei sudsudanesi, viene dal sud Afayo e ha molti caratteri in comune con gli africani che già conosco, parlando in inglese usa frasi come: “Mangerò il Natale a Bentiu” per dire “Trascorrerò il Natale a Bentiu” oppure usa la parola “dolce” per riferirsi a qualsiasi cosa saporita, anche fra quella salate: quell’animale (una specie di faraona selvatica) è piu dolce del pollo”, un uso molto strano per noi italiani. Afayo ha lo sguardo timido, spesso abbassa la testa quando gli si pone una domanda, parla poco e mai a caso, a volte quando non vuole dire le cose si morde le grandi e larghe labbra carnose, ha una bocca larga ma la usa poco, in compenso sorride molto, sorride spesso. Quella bocca la ricorderò per sempre, dopo aver trascorso una domenica sera ad illuminarla con la luce del mio telefonino (la luce sul telefonino ha cambiato la vita di chi vive in Africa) mentre un dottore ugandese gli strappava un dente cariato. Afayo è uno degli autisti della nostra organizzazione, avrà 25 anni ma è un ragazzo calmo, posato e responsabile, non beve e guida a velocità moderata, sempre, non suona troppo il clacson, qualità rara qui, non insulta passanti distratti, bimbi giocosi e lenti vecchi cenciosi che pullulano sulle polverose strade del Sud Sudan. Afayo è una brava persona ed è facile lavorare con lui, mi piace davvero molto e quando viaggiamo insieme è bello fare una chiacchierata con lui.
Sono in Sud Sudan da 4 mesi ormai, ma se penso ai miei primi e ormai già lontani ricordi mi sembra di aver vissuto in due paesi completamente diversi. Sono arrivato che le pianure del Sud Sudan settentrionale erano una distesa di smeraldo peloso, una coperta verde di erba alta punteggiata da alberi verdi e rigogliosi, tanti acquitrini, vaste pianure allagate a perdita d’occhio, il fango era il compagno delle mie giornate. Nei campi profughi regnava il fango, mescolato alle tracce biologiche dell’esistenza di questi esseri umani fuggiti dalle montagne Nuba. sulle montagne si spara, e queste anime disperate sono finite nel fango di Pariang a tirare avanti mangiando polenta di sorgo e lenticchie, ricevute una volta al mese dall’Altro Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sulle montagne Nuba si continua a sparare e la gente continua a fuggire, circa 2,000 a settimana passano il confine ma qui il fango si è asciugato ed è diventato rossa terra polverosa che il vento di fine novembre alza e porta, sulla pelle, negli occhi, fra I capelli e più lontano.

Ad Addis Abeba i pasciuti politici di Juba e Khartoum hanno firmato scartoffie simbolicamente importanti ma che difficilmente risolveranno una delle questioni più complesse dell’attuale situazione geo-politica internazionale. La creazione dello Stato del Sud Sudan ha creato almeno altrettanti problemi di quanti non ne abbia risolti: incertezza sui confini e molti territori contestati, traffici commerciali bloccati con pesanti conseguenze sulla sicurezza alimentare ed il costo della vita per gli Stati del Sud Sudan settentrionale legati a doppio filo a Khartoum, tensioni fra i due eserciti alle prese con la guerriglia del Darfur, delle montagne Nuba e dello Stato del Nilo Blu, tutti situati in Sudan ma al confine col Sud Sudan, tutti alleati contro Khartoum e ora saldati in un Fronte Nazionale, segretamente ma poi neanche tanto, appoggiato dal governo Sud Sudanese. Ma il fattore di gran lunga più importante della contesa è la maledizione nera, chiamato anche, ingannevolmente, “oro nero”.
Lo Stato di Unity (cioè Unità) galleggia letteralmente sul petrolio, niente a che vedere con gli immense giacimenti petroliferi dell’ Iran, dell’Iraq, della Nigeria o del Venezuela ma pur sempre importanti riserve di petrolio. Il  territorio è piatto, appoggiato sui detriti millenari del serpeggiante e maestoso Nilo bianco e ricoperto di una spessa vegetazione secca e giallastra, almeno in questo periodo dell’anno. Questa non è l’Africa da cartolina, non è l’ Africa di turisti con cappelli ridicoli e vestiti come David Livingstone e nemmeno l’Africa delle spiagge bianche con le mucche e le donne avvolte da vestiti colorati, questa è l’arida terra dei falchi e a giudicare dal numero di falchi, anche la terra delle vipere e dei serpenti. Un ambiente duro, secco, primitivo, dove ogni goccia d’acqua è preziosa e i falchi la fanno da padroni. In mezzo a questa campagna dura ed incontaminata ci sono stormi di uccelli bellissimi, gialli, in stromi di alcune centinaia che volano di campo in campo a mangiare il sorgo dei poveri contadini, oppure rossi, come il sangue versato durante le battaglie combattute da secoli fra Dinka e Nuer, tribù sorelle impegnate da sempre in una eterna ed infinita lotta all’ultima mucca. Le mucche sì, talmente importanti e rispettate che l’impostazione culturale dinka impone alle donne di starne lontane dalla cura delle mucche, troppo importanti perché se ne occupino degli essere “deboli ed inaffidabili” come le donne. L’unica cosa che le donne possono fare con le mucche è mungerle, per tutto il resto l’uomo la fa da padrone e decide, e spesso è l’unica cosa che fa. L’uomo solitamente delega alle donne tutto il resto: il compito di crescere i bambini e le bambine, sfamarli, lavarli, educarli e pensare a tutto ciò che serve per la casa dalla legna all’acqua, dall’agricoltura al piccolo commercio. Dinka e Nuer popoli guerrieri e fieri, dall’orgoglio feroce, impulsive, distruttivo e autodistruttivo, un orgoglio che si riflette nella vita di tutti I giorni con conseguenze violente in una terra dove sopravvive solo il più forte. Basta guardarli in faccia i Dinka e I Nuer, sguardi severi, volti spigolosi, fronti basse, rigate per lungo da cicatrici rituali che affondano le radici in una storia senza tempo, profondità e memoria.

La piatta pianura intatta e selvaggia è stuprata da oasi di modernità volgare, dietro una curva compare un mastodontico deposito di petrolio, appena fuori un villaggio di fango e malaria ecco le tubature dell’ oleodotto che porta questo veleno nero a Port Sudan. E allora forse si capisce perché questa zona di confine sia cosi importante ed ambita. Ecco che forse si spiegano le lunghe colonne di auto con mitragliatori, mortai e cannoni di gruppi ribelli in sfilata in pieno giorno, braccia di menti fredde e corrotte che siedono a pancia piena dietro agli scranni dei parlamenti nazionali. Sulle montagne Nuba si uccide e si è uccisi, si fugge dalle bombe la vera partita si gioca altrove: Juba, Khartoum, Washington, Pechino, Bruxelles. I falchi , I corvi e gli avvoltoi che giocano sulla pelle dei sudanesi, giovani e vecchi, Dinka o Nuer non importa, tutti fili d’erba della battaglia fra elefanti malati che combattono per un mondo sempre più a rischio.
Basta guardarsi attorno mentre si percorrono le polverose piste di polvere di Unity per capire perché il 100% dei pozzi d’acqua della contea di Koch sono gravemente contaminate e l’acqua non adatta per il consumo umano. Pozzi avvelenati da metalli pesanti che staranno nella terra argillosa, dura e secca per secoli, souvenir ai posteri di una maledizione nera che prima o poi finirà. E le ONG che fanno? Al momento raccomandano che è meglio berla quell’acqua inquinata piuttosto che morire di sete, pensiero freddo, razionale e sensato ma terribilmente triste ed ingiusto. Cosi si chiude la riunione delle ONG, un grido di rabbia e disperazione mi si soffoca in gola, in fondo non ci si può far niente, per ora…

Da Liniers, con amore, per Daniela:


sabato 13 ottobre 2012

Tutti figli di un donna



Stivali da pesca di gomma nera, camminiamo su un verde tappeto d’erba alta 30-40 centrimetri, il fango sotto i nostri piedi si squaglia come se camminassimo sul pongo, gli alberi, radi nelle vicinanze, più fitti in lontananza, fra noi e loro solo una piatta, verdissima prateria allagata. Questo è il Sud Sudan durante il periodo delle piogge, acquazzoni ogni 2-3 giorni e sole che batte forte gli altri, facendo evaporare l’acqua da pozzanghere di fango grigio e acquitrini popolati da migliaia di rumorose rane gracidanti. Michael sta in piedi a braccia incrociate e parla ai ragazzi, tutti rifugiati, membri del comitato agricolo del campo profughi di Pariang, popolazione: solo 1,200 quasi tutti studenti, il campo è una filiazione per sudenti delle superiori del ben più grande campo di Yida, a pochi chilometri a nord, verso il confine, popolazione: 65,000 ed in continua crescita. Yida e’ come un capoluogo di provincia sorto in poco più di un anno a causa dei combattimenti fra esercito regolare sudanese e ribelli dell’ Esercito Popolare di Liberazione del Sud Sudan (SPLA) che ha uno dei suoi centri sulle montagne Nuba.
Michael e’ un agronomo sudsudanese ma ha studiato in Uganda, qualche mese di esperienza con una ong locale in Sud Sudan e poi l’occasione di lavorare con una ong internazionale. Nel frattempo ha anche scritto dei discorsi per una parlamentare del nuovo governo del Sud Sudan ma è rimasto scandalizzato dalla mancanza di preparazione della parlamentare, la quale, afferma, legge discorsi che non capisce e se ne prende tutti i meriti, sveglio ed orgoglioso Michael. Lo chiamo Michael, ma forse sarebbe meglio chiamarlo Saviour – “Salvatore”, come fanno gli amici e i familiari, 23 anni, poco più di un metro e settanta, corporatura snella, non molto muscolosa ma piuttosto nervosa, un sorriso largo, aperto e lo sguardo a volte timido a volte furbo. Ora Saviour insegna ai rifugiati come coltivare questa terra difficile, argillosa ed allagata, ma da piccolo, da bambino è stato un rifugiato a sua volta. Originario dello stato dell’ Equatoria Orientale, al confine con Uganda, Kenya ed Etiopia, si è ritrovato a crescere in uno dei tanti campi rifugiati per sud sudanesi ospitati dall’Uganda. A suo dire, fra tutti, lo stato più accogliente verso i sud sudanesi in fuga dal conflitto civile durato dal 1983 al 2005.
E’ una nera notte stellata di Bentiu, fangosa e piena di insetti ronzanti nell’aria quando Saviour mi racconta come abbia avuto quel nome (gli altri sono Selle, Faustus e Michael) da un dottore locale amico di famiglia, per lui, i genitori prevedevano una carriera da medico, in particolare anestesiologo, ma fin da adolescente lui aveva deciso di diventare agronomo, e così è stato. Fin dalle elementari ha dato prova di essere uno studente sveglio, brillante e dotato, al di sopra della media, tant’è che lui ed un suo amico, che lui definisce “genio”, in quanto più intelligente di lui, in soli 4 anni hanno portato a termine le scuole elementari, che ne richiederebbero 7. Questo essere continuamente promossi a classi superiori aveva perfino suscitato perplessità da parte della mamma, preoccupata che il figlio crescesse troppo in fretta e sovraccarico di pressione, lezioni e compiti da portare a termine. Savior è uno dei tanti africani cresciuto quasi esclusivamente dalla propria madre, un padre c’è, dice, da qualche parte in Equatoria Orientale, a volte si fa sentire, ma molto di rado, impegnato fra lavori e altre vite, con altre mogli e altri figli, a tal punto da dimenticarsi della prima moglie e dei figli avuti con lei. La mamma di Saviour, che lui adora, ha fatto una brillante carriera come segretaria di ong e agenzie bilaterali e delle Nazioni Unite attive nei campi rifugiati, potendo contare solamente sul suo stipendio da segretaria ha già portato 3 figli, tutti maschi, alla laurea, ed il più piccolo sta per terminare la scuola secondaria, andrà anche lui all’università l’anno prossimo. Saviour dice che la mamma non ce l’avrebbe mai fatta a mandarli tutti a scuola se il secondo figlio, particolarmente intelligente, non avesse ricevuto una borsa di studio dal governo sud Sudanese per studenti particolarmente meritevoli. Infatti, diversamente da come accade spesso in Africa, il fratello più grande, ormai un uomo d’affari nell’ est dell’Uganda, non si è mai sentito in dovere di aiutare economicamente i fratelli minori, perciò il carico è ricaduto interamente sulla madre anche per i 3 figli successivi.
Saviour si illumina quando parla della mamma, ed è contento di andarla a trovare durante le vacanze che stanno per cominciare. La mamma ora vive lungo il confine fra Uganda e Sud Sudan e vive gestendo i terreni che ha comprato e le case che ha costruito nel tempo con i risparmi del suo lavoro da segretaria. Saviour è consapevole di essere stato cresciuto da sua mamma e questo influenza anche il suo approccio al lavoro, osservandolo all’opera, l’ho sentito molte volte riprendere i suoi colleghi o i ragazzi coinvolti nel progetto che avevano trattato male o comunicato in maniera offensive con le ragazze coinvolte nei nostri progetti, Saviour non tollera di veder trattar male le donne e dice, candidamente: “In fondo siamo tutti figli di una donna, veniamo da una donna, perché dovremmo trattarle male?”.


Dopo due birre, tiepide perché il generatore non funziona bene, nella penombra di una serata in un bar di Bentiu, lasciata da parte la routine lavorativa, ci lasciamo andare anche a qualche discorso un po’ più intimo. Saviour ha una ragazza, stanno insieme da 3 anni e davvero la considera la ragazza della sua vita, sembra innamorato, ed è convinto che si sposeranno, quando lei avrà finito gli studi universitari. Anche la ragazza studia a Kampala ed è al suo primo anno e sarà la seconda persona che andrà a trovare durante le sue vacanze. Mi dice di essere un po’preoccupato perché lei non va d’accordo con il suo gruppo di amici maschi e quindi sarà difficile riuscire a vedere tutti nei pochi giorni che trascorrerà a Kampala. Ha piani per loro come coppia e dice che sta risparmiando per il futuro e per una futura vita insieme.
Per molti aspetti la vita di Saviour potrebbe essere considerate “normale” dal punto di vista di un europeo: l’università, un buon lavoro, una ragazza che ama…tutto questo cambia all’improvviso  quando si toccano i ricordi d’infanzia e racconta come da rifugiato nei primi anni si sentisse addosso l’etichetta di “diverso” in quanto sudsudanese rifugiato in Uganda. Aggiunge che comunque l’integrazione in Uganda è stata più facile per lui che per i suoi amici che sono finiti in Kenya o in Etiopia. L’ apparente normalità della vita di Michael si infrange quando racconta che a 7-8 anni dovendo recarsi a Kampala per frequentare le scuole elemetari doveva attraversare un territorio controllato dal famigerato Lord Resistence Army – Esercito di Resistenza del Signore - di Joseph Kony. Per percorrere 2-300 chilometri dice che ci si impiegava tutto il giorno. Dapprima c’era la raccolta di tutti gli autobus e di tutti I passeggeri in un unico punto per formare una carovana, seguiva un pattugliamento dell’esercito, che con mitra spianati percorreva il tratto di strada in perlustrazione avanti ed indietro. Dopo aver avuto il nulla osta dell’esercito la carovana procedeva lentamente attraversando il macabro regno di Kony. Saviour dice che  sull’autobus nessuno parlava e c’era un silenzio surreale rotto solo dal borbottio del motore e dai cambi di marcia dell’autista; per 2 o 3 ore sull’ autobus nessuno parlava, beveva o mangiava, nessuno faceva nulla, la mente di tutti monopolizzata da un unico pensiero: il terrore di un assalto dei ribelli, spesso drogati, del  Lord Resistance Army a caccia di soldi, cibo e di qualsiasi cosa che avesse un minimo valore e pronti a far fuoco per un nulla o anche solo per incutere ulteriore terrore. Racconti di tutti i giorni da un’ Africa sospesa fra normalità e tragedia, donne coraggiose e figli orgogliosi, discriminazione e fulgidi esempi di forza al femminile, gente lavoratrice e onesta e bande armate criminali, rifugiati di guerra e accoglienza di chi ha non ha niente da parte di chi ha poco. Tutto questo e molto di più è l’Africa che sto vivendo, questo continente contraddittorio, affascinante, assolutamente imprevedibile ma sempre vivo e ricco di sorprese e scoperte, soprattutto umane.


Enriqueta, Fellini e l'arte di vivere...
1. Cosa ti succede? 2. Credo mi sia andato bene l'esame di storia - Però ancora non ti hanno dato il voto? No 3. E ti sembra il momento di festeggiare? 4. si...se alla fine prendo zero almeno ho fessteggiato...non vedo il problema!


domenica 2 settembre 2012

La cupola azzurra e la capanna di canne

Campo profughi di Pariang- in bianco gli alloggi, a sinistra le scuole per i rifugiati


Nove di mattina, assolata, calda, domenica mattina a Pariang, nel nord del Sud Sudan, nuvole lunghe, alte e sottili, spalmate sul cielo azzurrino, una cupola immensa, larga  e aperta come solo alcuni cieli d’Africa possono essere. Cammino con Michael, il nostro agronomo, la lunga strada dritta che attraversa il villaggio, terra marrone, chiamata marram, l’unica che drena un po’ l’acqua che cade quando la cupola azzurra diventa grigia, cupa e minacciosa, e poi piange. Cerchiamo un trattore per portare del materiale a Nyeel, a 40 chilometri da qui, e’ l’ unico mezzo che puo’ farcela in questa stagione, ma trattori non ce ne sono, mi guardo intorno, cerco un posto per comprare una ricarica telefonica, vedo una ragazza, seduta su uno sgabello basso, frigge qualcosa, sembrano frittelle, ne compro 3 per un pound, un quarto di euro praticamente, il locale mi ispira e propongo a Michael di entrare per un the, abbasso la testa per entrare nella capanna di canne, 4 metri per 5, il sulo rugoso, irregolare, in terra battuta, calpestata da mille piedi e sporca di farina e chissa’ cos’altro. Ci sediamo sulla sedia di platica marroncina, mi guardo attorno e c’e un vecchietto e 4 o 5 ragazze sedute a bere il the, non parlano, sembrano rilassate e e serene, sicuramente non indaffarate, una sorseggia the all’ibisco, chiamato karkade’, ne provo uno anch’io, dolcissimo, mezzo bicchiere di zucchero  in un bicchiere di the, arrivano le frittelle, 4 al prezzo di 3, la ragazza ci aggiunge un cucchiaio  di zucchero sul piattino delle frittelle, dolci, ma nemmeno troppo unte, chiacchero con Michael, mi racconta che la sua ragazza e’ in Uganda e andra’ a trovarla ad inizio Ottobre, concordiamo le ferie, anch’io devo andare a trovare la mia, qualche centinaio di chilometri piu’ a sud e qualche settimana dopo. Michael mi piace, e’ sveglio e lavoratore, mi trovo bene a lavorare insieme a lui, e’ piu’ maturo della sua eta’, classe 1989.

Una delle strade principali, direzione Yida, verso il confine col Sudan


Una bimba di circa 10 anni ci porta il the, poi torna ad accovaccarsi per terra, sta pestando le spezie che aromatizzeranno il caffe’ che sua mamma sta arrostendo sul fuoco di carbonella, l’odore pungente del caffe’penetra prepotentemente nelle narici, punge quasi, svegliando i pigri neuroni della domenica mattina. La signora del caffe’ veste di viola, un vestito lucido e dale tinte forti, un viola acceso con ricami neri, il volto altrettanto nero, come il caffe’ che sta tostando, il sorriso largo e aperto, come i cieli d’Africa, una fascia viola in testa fatta della stessa stoffa del vestito. Blu, come il telo di plastica che copre mezza della parete che ho di fronte, marroncino come i pezzi di cartone che sporgono dal soffitto di canne, giallo come I vestiti di due ragazze che si alzano e se ne vanno. L’ essenzialita’ del posto e’ rilassante, vera, umana, calda e accogliente. La capannina del caffe’ e’ in realta’ un mini-supermercato, all’entrata il cibo, le frittelle, a sinistra il “negozietto”, una vetrina di 4 ripiani fornita di zucchero (ovviamente), sigarette keniane, benzina, olio motore, forbici di plastica colorate dalla Cina, biscotti, ovviamente i Glucose, prodotti a Dubai con ingredienti di dubbia provenienza ma presenti ovunque in Africa, almeno tanto quanto Pepsi e Coca-Cola, le imprese avvelenatrici di falde acquifere e diritti umani e sindacali che arrivano ovunque. Annuso lo zenzero che la bambina sta ora pestando e ordino un caffe’, sono curioso di assagiarlo, senza zucchero, specifico questa volta, arriva ed e’ buonissimo, chiedo anche un altro bicchiere, vuoto, per raffreddarlo, come al solito non riesco a bere le bevande troppo calde, chissa poi perche’, Michael ride…

Allagamento a Pariang

Siedo e mi guardo intorno, fronti rugose, volti giovani segnati dalla fatica, dalla cattiva e carente alimentazione, e poi chi lo sa, dallo stress generato dalla lunga lotta per l’indipendenza di questo paese che sta avviandosi a compire i suoi primi passi ma che ancora fa fatica a reggersi in piedi, sotto il vento di poteri piu’ forti e piu grandi. Mi sento in pace ed accolto, come in quel chiosco di Bhopal dove ho mangiato dei gustosissimi falafel nel quartiere musulmano, come in quel ristorante di strada dove ho mangiato dei saporitissimi spiedini con padre Natale e Dario, come da babu a mangiare uroyo, kachori e sorseggiando infuso di zenzero, un respiro  di umanita’ che riempie gli occhi di calore, accoglienza e felicita’. E ora sono qui, sotto un’acacia a scrivere su carta i miei pensieri sparsi come non mi succedeva da tempo, ma l’assenza di elettricita’, di benzina per il generatore e le poche batterie del mio computer mi hanno spinto a riapprezzare il piacere di disegnare parole blu su sfondo bianco, il negative del cielo sopra di me, questa immense cupola azzura con disegni bianchi che sono immagini e parole, che sono passeggere ma sempre presenti, che sono sogni e speranze.

Liniers, con Fellini e Enriqueta:
( Fellini: "Torni perche' ti manco?")

domenica 5 agosto 2012

Why? (Perche?)


Il Nilo Bianco a Juba

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti, di parole,
di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino alle orecchie degli amanti...
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e da' colori nuovi.
(Alda Merini)
Il Nilo ed in fondo l'unico ponte sul Nilo di Juba

“Hi my friend! Why?” (Ciao amico mio, perché?). Questa è stata la frase che più mi ha fatto sorridere durante la mia prima corsetta in Sud Sudan. Domenica mattina la ragazzine, magrissime, in ogni caso, alte per la loro età, si avviano verso la chiesa, vestiti lunghi, lucidi, viola, gialli, verdi, il vestito buon immagino, messo la domenica per andare a messa, o anche solo per fare una passeggiata con le amiche, cellulare in mano e musica hip pop americana sparata ad un volume che basta a far gracchiare il mini altoparlante installato su questi cellulari, sorprendentemente potente ma anche di bassa qualità. Sono a Bentiu, nel nord del Sud Sudan, nel 2006, aveva circa 7,700 abitanti, ora potrebbero essere attorno ai 10,000 considerando che migliaia di sud sudanesi dal 2005 in poi hanno risalito la valle del Nilo, dalla desertica Khartoum alle verdi alture del sud Sudan. Dopo una settimana trascorsa in ufficio, fra Juba e Bentiu, durante la quale la mia unica attività fisica sono stati 20 minuti di yoga alla mattina, sdraiato sul pavimento di piastrelle bagnate fra la mia scrivania e la macchina fotocopiatrice dell’ufficio, ho sentito il bisogno di muovere un po’ la gambe. Una domenica soleggiata, strano, visto che siamo quasi al picco della stagione delle piogge e nell’ultima settimana ha piovuto tutti i giorni, soprattutto di notte, inzuppando il mio letto, piazzato vicino alla finestra, e obbligandomi a svegliarmi nel cuore della notte per chiudere le imposte, spalancate la sera per non soffocare nel caldo umido del luglio sud sudanese aggravato da una zanzariera che ricopre il mio letto e sicuramente non permette di apprezzare quell’alito di brezza notturna che comunque ci sarebbe.
Fango, quello si ce n’è, tanto, le strade sono di fango, tutto il resto è verde, verdissimo in questo periodo dell’anno, prati di erba lunga fino alle ginocchia, mandrie di mucche dalle corna lunghissime e spessissime, alcuni asini, oggi forse a riposo ma che durante la settimana tirano carretti carichi di pesantissimi barili pieni d’acqua. Poche le abitazioni in cemento, moltissime quelle in fango e legno, col tetto di paglia, tutte circondate da recinti di canne alte come alcuni soldati dell’esercito di liberazione del popolo del sud sudan (in inglese: S.P.L.A. Sudanese People Liberation Army) che si aggirano numerosi per il “centro” di Bentiu con AK-47 a ricordare e ricordarci che oltre 20 anni di guerra non si dimenticano con 7 anni di pace e un solo anno di indipendenza.
Il lussuoso Bentiu Grand Hotel, non sto scherzando, è il nome vero (uno dei 2 migliori ristoranti di Bentiu)

Continuo la mia corsa, piccoli uccelli rossi e neri sono appoggiati sui fili dell’elettricità che non c’è, farfalle, libellule e altri insetti che non avevo mai visto prima ronzano tranquilli sotto il sole equatoriale, i bimbi mi guardano, ridono, mi prendono in giro perché corrono e si mettono a ballare, pochi hanno il coraggio di chiamarmi o salutarmi, solo i più grandicelli, anche loro magrissimi e slanciati, accennano un saluto, qualcuno solo un “Hello!” qualcuno anche un “Where are you going?” (Dove stai andando?). Io rispondo a tutti e saluto tutti quelli che il mio fiatone mi permette di salutare, fa caldo, umido, forse non è l’ora migliore per correre ma va bene così, credo di avere intuito più cose in questa mezzora di corsa che nell’intera settimana passata. Sono felice di essere qua, ottimista, la gente del sud Sudan mi sta già entrando dentro e ignoro qualche sguardo cupo e severo che mi sono sentito addosso da qualche uomo di mezza età. Sorrido a tutti, non costa niente e ricevuto più sorrisi in cambio di quanti ne abbia offerti. Alla domanda “Why?” ho risposto: “Perché sono grasso” battendomi le mani sulla pancetta, in realtà è solo parte dei motivi, uno è che correre il forse fra i modi migliori di iniziare ad esplorare un posto, iniziarne ad appressarne i colori unici, annusarne le puzze fantastiche che ci sono qui in Africa, toccare in qualche modo, o forse sfiorare, incrociare il mio sguardo con alcuni rappresentanti di quella parte di umanità che è qui, sotto il nostro stesso sole ma che spesso non esiste a meno che non riesca ad impietosire i portafogli e far funzionare una qualche raccolta fondi di una qualche ONG.

Liniers, umorismo in arte:
                   "Senti"                  "Cosa fai lassù"                                           "Sono caduto"   
SANCHEZ RISPOSE AL PASSANTE

martedì 17 luglio 2012

Porto Gallo



Non ho visto nemmeno un gallo in Portogallo, ma porti sì, I porti sono anche porte, porte verso altri mondi, l'Oceano, mezzo e teatro di secoli di esplorazioni, viaggi, scoperte ed incontri, tralasciamo per un momento le motivazioni poco nobili dei viaggi di esplorazione: il denaro, le ricchezze, la sete di appropriarsi di ricchezze altrui, con la solita “hybris” europea. Tralasciamo anche gli effetti più nefasti di questi viaggi di scoperta: il colonialismo, il commercio degli schiavi, l'azzeramento di strutture sociali, la cancellazione di culture millenarie, la distruzione dell'ambiente naturale, la spogliazione economica e la sostituzione di lingue, tradizioni e religioni locali, considerate inferiori, con lingue, tradizioni e religioni “d'importazione”.
I viaggi d'esplorazione, ma in fondo tutti I viaggi, sono sopratutto occasioni di incontro, scambio, dialogo.
Attraverso I viaggi la lingua portoghese si è arricchita e ha arricchito altre lingue, lasciando tracce in mezzo globo terrestre e inglobando nel proprio vocabolario termini esotici provenienti da terre lontane.
In Cina, i portoghesi hanno imparato come si chiama il the: cha e hanno contribuito portare questa parola in India. A loro volta I commercianti indiani l'hanno portato in Africa orientale dove in swahili il tè si chiama chai. In India I portoghesi hanno iniziato a mangiare dei triangolini di pasta ripieni di verdure, patate o carne tritata, chiamati “samosa” e tuttora presenti nei bar di Lisbona come stuzzichino, ma anche cucinati dalle venditrici di cibo di strada in Tanzania, dove hanno assunto il nome di “sambusa”.

In Tanzania il portoghese ha lasciato tracce linguistiche, come le parole tavola: “mesa” e vino: “vinho”entrambe legate al mangiare e alla convivialità. Questo non mi stupisce visto che I miei 5 giorni a Lisbona sono stati davvero ricchi di convivialità e scoperte gastronomiche. L'opinione, semplificata, generale e complessiva del Portogallo è stata eccellente. Ho riincontrato Chinis, peruviana, un'amica “a distanza” conosciuta a Parigi un giorno di Febbraio di 4 anni fa per caso in quanto entrambi invitati al compleanno di un amico comune. Ho incontrato amici nuovi e festeggiato per le strade di Lisbona addobbate e festa per celebrare il santo della città: s.Antonio, quello che noi chiamiamo S.Antonio da Padova, nato a Lisbona il 15 Agosto 1195 e morto, a 36 anni, a Padova il 13 Giugno 1231. In giugno le ripide, strette e colorate strade di Lisbona si riempieno di festoni, nastri colorati, bandiere, chioschi, banchetti e palchi per concerti che si sussegono per circa 3 settimane, ogni sera, e notte, centinaia di migliaia di giovani e meno giovani scendono in piazza a far festa, bere, ballare e godersi l'inizio dell'estate, nonostante la crisi e la difficile situazione economica del Portogallo ho potuto apprezzare tanta gioia, voglia di stare insieme, di accogliere e di conoscere nuova gente, ho parlato con decine di persone diverse, con alcuni mezzora, con alcuni solo uno scambio di battuta in una lingua che non esiste visto che mescolavo spagnolo, italiano e inglese per farmi capire e con I portoghesi di origine africana mi veniva spontaneo parlare swahili. Ho ballato con la gente più diversa e fatto brindisi con degli sconosciuti.
Il Portogallo, una breve ma intensa avventura, tante piccole scoperte e la voglia di ritornarci, la prossima volta con la persona che rende tutto più speciale...Daniela.
Rimane comunque un mistero, perchè questo paese si chiama Portogallo? La risposta forse nel prossimo viaggio...

E ora Liniers, speranza d'amore formato vignetta:
                                          "Non tocca mai a me..."                 "Ciao!"        "A tutti tocca..."


mercoledì 23 maggio 2012

Il cielo di Tukuyu



"Corsa notturna Tukuyu-Mbeya"...questo appunto e' stato sul mio desktop per oltre un mese e oggi mi ha dato lo stimolo per sedermi e scrivere qualcosa. Ora sono qui, alla pesnione "Francesco's" un quadrato di terra a 300 metri dal mare dove un italiano, oltre vent'anni fa ha costruito un piccolo albergo con circa venti camere, un piccolo bar ed un ristorantino per i clienti dell' albergo, uno spazio aperto, verde, con alberi e cespugli curati. Da qui non si vede il mare, la vista e' impedita da cespugli, alberi di mango, anacardo e palme da cocco, la versione tropicale della siepe del Leopardi.
L'albergo e' chiuso ma Francesco ha deciso di ospitarmi lo stesso a titolo d'amicizia, pranziamo e ceniamo insieme, ed a volte ho la sensazione di trovarmi di fronte ad un nonno, a volte ad un amico. Tanti racconti di viaggio, a volte ripetuti mille volte, ma sempre raccontati con allegria, energia e incanto, quell'incanto che solo gli uomini di una certa eta' e i bambini hanno, gli uni perche l'hanno conservato, gli altri perche non l'hanno ancora perso. I bambini pero, molto probabilmente lo perderanno presto, bruciandosi l'infanzia, cosi il consumismo vuole, cosi il nostro sistema allo sfacelo ha deciso che i bambini devono essere, dei superconsumatori senza portafogli, che hanno infiniti bisogni imposti dalla pubblicita' e dalle TV, i soldi dei genitori (sempre meno) ma un'arma infallibile, i capricci, i pianti ed il ricatto. 
Anch'io sento di aver un po' perso la capacita' di stupirmi, di illudermi, di giocare, ridere e scherzare, non so perche' ma sicuramente non mi piace, spero che tornero' ad illudermi, stupirmi per un niente e ad avere lo scherzo un po' piu' facile, questa seriosita' che mi ritorov addosso non mi piace, non mi si addice, mi si e' infilata dentro a poco a poco, senza che me ne accorgessi. Odio la seriosita', odio la mia stessa seriosita', che e' diverso dall'essere seri, la seriosita' e' una maschera, spesso sotto non si e' seri. Anzi, e' forse vero il contrario, chi e' veramente una persona seria, riesce a non essere serioso, perche' lo e' veramente e non ha bisogno di maschere. O forse le due cose non sono correlate e si puo essere seri e seriosi al tempo stesso, chi lo sa?
Gia', lo scherzo, la risata, sono fra le cose che mi rimarranno piu impresse di questi anni in Tanzania, spesso, le ho trovate inappropriate e fuori luogo in alcuni momenti, ma il piu delle volte, la leggerezza, l'umana allegria, semplice, e la risata aperta, come il loro cielo, degli africani ha reso ogni giornata un po' piu' luminosa e solare. Ho spesso invidiato a molti tanzaniani, questa capacita' di passare in un attimo da discorsi seri e impegnati, magari di lavoro, allo scherzo, la battuta, la chiacchiera che come una brezza oceanica rinfresca l'animo incupito, rinsecchito e un po' indurito, di chi, come me, tende ad essere un po' troppo serioso.
Il cielo, aperto, eh si, per chi come me e' cresciuto vedendo il cielo come un cuneo azzuro fra ali di montagne verdi, nere, grigio pallido e rosa, al tramonto, il cielo d'Africa e' una sensazione spiazzante, strana, un cielo largo, aperto, sterminato, azzuro, con nuvole grandi e spesse, appoggiato su un paesaggio collinare verde, marron, irregolare e ricoperto di baobab, manghi e palme. Il cielo d'africa stupisce ancora di piu di notte. Dopo Pasqua, al ritorno dal Malawi, ho perso l'ultimo autobus per la citta' di Mbeya dove dovevo trascorrere la notte, otto di sera, buio, mi trovavo in una cittadina sconosciuta, sperduta in mezzo alle montagne che separano la Tanzania dal Malawi, Mbeya dal confine. Niente piu autobus, mi viene una pazza idea, perche non prendere una moto? Mi dicono che ci vorranno 40 minuti (a posteriori scopriro che erano 72 chilometri, non percorribili in 40 minuti con una moto 125), costo: 20.000 scellini, 10 euro, ma almeno dormirei in un posto che conosco e che domani riuscirei a tornare a Dar es Salaam. Salgo, metto il casco e raccomando 3 volte al guidatore di andare piano. 
Fa freddo, iniziamo il nostro viaggio notturno, il cielo e' blu scuro, terso, non c'e una nuvola, la moto romba lungo le tortuose discese di Tukuyu. Romba ancora di piu durante le brevi risalite. Sono in pantaloncini corti, il freddo pizzica, c'e anche nebbia di tanto in tanto. Il guidatore, nella sua calda giacca gialla, ride quando gli dico che ho freddo. Io dietro di lui mi tengo con le mani fermamente avvinghiate al portapacchi, mi sento libero, a cuor leggero, un' immotivata ma gradita felicita' mi pervade ed inizio a godermi la corsa.  Le mani iniziano a gelare e io faccio il possibile per riscaldarmele, non pensavo facesse cosi freddo, da quando sono in Tanzania non avevo mai provato tanto freddo. Guardo in alto e rimango a bocca aperta, migliaia di stelle sono li ad osservare la mia corsa notturna da Tukuyu a Mbeya, spettatori fedeli di tante notti, quante ne hanno viste, hanno assistito a quasi tutte le mie avventure. 
Le stelle si, perche qui quasi tutto accade sotto lo sguardo calmo, impassibile e scintillante delle stelle. Un cielo cosi apre il cuore, dona gioia e ti fa sentire in pace, anche su una moto rombante. Nelle pause pero' quando la moto si spegne e rotola con il solo rumore dei pneumatici giu lungo l'asfalto nero, in messo a lunghe file di banani, altrettanto neri, la situazione diventa assolutamente romantica, avventurosa e speciale, sempre qui, sulla strada...
Il viaggio durera' un'ora e 10 minuti e arrivato tutto intirizzito a Mbeya, apprezzo una insolita doccia calda. La moto sta gia' risalendo a Tukuyu, l' autista ha gia' dimenticato il mio nome ma io non dimentichero' mai come mi sono sentito quella notte sotto il cielo nero ma infinitamente stellato di Tukuyu.

E ora per provare ad essere meno seriosi, chiediamo aiuto a Liniers e alle stelle:
Enriqueta: " Hai visto tutt quella gente che si sbatte per una vita a cinque stelle?"..."Io mi tengo la mia vita a mille stelle"

martedì 3 aprile 2012

E cosi sono qui



La pioggia, a sorpresa, batte sul tetto, il ventilatore e’ ancora attaccato pero', questi giorni fa davvero caldo. All’aperto la brezza dell Oceano Indiano aiuta e rende il pranzo comunitario in giardino un momento piacevole, due chiacchere con Lalam, “come stanno a casa, le mucche tutto bene, cresce il granoturco?” una battuta con Perfect: “hai visto la partita ieri? Forte il Milan eh? Ma contro il Barca... “ si scherza con Ema, “Mary come sta? CHADEMA che dice?”( partito politico d’opposizione dal crescente appoggio popolare) “manca la corrente, governo ladro, manca l’acqua, governo ladro, piove, governo ladro”, tutto il mondo e’ paese.

Ho iniziato il mio ultimo mese di lavoro a Bagamoyo e la citta’ ha assunto tratti diversi, colori e suoni diversi. Tre anni e mezzo sono tanti, il posto dove ho trascorso piu tempo dopo Canale, visto che comunque all’Universita’ facevo praticamente il pendolare settimanale. La mattina c’e’ la corsa, spesso in spiaggia, con i pescatori, le mamme coi kanga, la puzza di pesce, e le barce in lontananza. Il mare, lunatico, a volte calmo, placido, a volte irrequieto, come una adolescente ribelle, a volte luccicante ai primi raggi del sole mattutino, come una ventenne spensierata, a volte risentito e spento come impiegato pigro il lunedi mattina. A volte la mattina, ci sono le foglie dell albero di papaya che con il loro verde brillante fanno da schermo al sole che gia alle 7 e mezza entra invadente in camera mia, come un ospite inatteso e maleducato. Nei weekend c’e’ il Devon, gli amici da Dar, e alcune anime perse che senza un motivo finiscono a Bagamoyo e ci rimangono o continuano a tornarci. A Bagamoyo ci sono i concerti, un chipsy maiai, un salto al Corner bar, una moto-taxi e via a ballare scalzi sotto alle stelle, liberi, squattrinati ma appassionati di vita. Bagamoyo e’ anche uscire dal lavoro che e’ quasi sempre buio, siamo all’equatore e alle 6.45-7 e’ spesso quasi notte, mancano le stagioni, stato di estate perenne che influenza l’umore e lo spirito della gente. Bagamoyo e’ anche dover accendere il generatore per lavorare o per avere un soffio d’aria, seppur calda, arrivare a casa ed essere al buio due giorni di fila, magari senz’acqua, governo ladro.

Ancora 2 mesi in Tanzania, non lo so se sono pochi o sono tanti ma saranno straordinari...

Fra qualche settimana potro' seguire questo saggio consiglio di Liniers:

Enriqueta: "Il bello delle vacanze e' che non si deve fare niente". Fellini: " E si puo farlo per tutto il giorno"

giovedì 23 febbraio 2012

L’ Oceano e i sogni


Blog nuovo, post vecchio, per riallacciare il filo con il vecchio blog pubblico di nuovo questo brano, c'e' l'Oceano che mi suscita sempre riflessioni...interessanti o meno...lo saprete dopo aver letto...

L’Oceano è a macchie questa mattina, calmo, piatto, a tratti così piatto che l’acqua sembra olio che galleggia sulla superficie, il resto leggermente increspato dalla brezza debole di questa mattina di maggio. Il cielo è grigio, carico di pioggia, nuvole gonfie e minacciose si riflettono sul mare, passa una barca con la vela bianca, un dhow, i pescatori ritornano carichi di pesci e calamari, gridano, scherzano, non capisco ma intuisco.
A riva, le donne, secchio, ciabatte di plastica Bata uguali quasi per tutte, cambia solo il colore: blu, rosse o verdi, due khanga: uno indossato come gonna e l’altro usato come cuscino da mettersi in testa il secchio. Le donne aspettano nel tratto di spiaggia fra il mare e il mercato del pesce, sta per iniziare l’asta mattutina, pescatori per terra che contano, raggruppano, legano, puliscono e preparano il pesce, frutto delle loro fatiche notturne. Il puzzo di pesce, di alghe, di interiora dei giorni precedenti mi penetra prepotentemente nel naso, che sveglia! Altro che il caffè preparato dalla mamma.
Corro, ho il fiato lungo, i piedi affondano sulla spiaggia di sale, mi abbasso, salto in mezzo alle corde che ancorano le barche alla riva, verdi, le corde, odorano di mare, il mio percorso ad ostacoli quotidiano. Ben altri ostacoli affrontano queste persone legate a doppio filo al mare. La popolazione aumenta, mangia di più. Non c’è lavoro, senza istruzione che fai? La cosa più semplice e prendere la via del mare, fatica, vita dura ma almeno ci si vive. Certo, ci si vive, per ora, pesca oggi e pesca domani, i pesci calano, bisogna pescare più a lungo, più tempo in mare, più fatica, andare più lontani su barche fatiscenti, aumenta il rischio. Qui dicono che il mare non si asciuga mai per dire che per i pescatori ci sarà sempre un bottino quotidiano, ma questo non è esattamente vero. Aumenta la rischiesta di pesce ed aumenta il prezzo ma chi ci guadagna? Spesso i padroni delle barche e delle reti. Per non parlare poi dei periodi di bassa stagione, il brutto tempo e le condizioni di vita. Volti e corpi segnati quelli dei pescatori, muscoli tirati, fibre forti a fior di pelle, vestiti intrisi di mare, cappelli scoloriti, sigaretta in bocca e sorriso in faccia, sguardo vivo ma fermo, rughe profonde e vita vissuta, davvero.
Le donne, giovani e vecchie, magre e grasse, chiacchierone o silenziose, placide, sedute, chiaccheranno, ma c’è incertezza, leggera tensione, ce la faranno ad aggiudicarsi il pesce ad un prezzo decente? E se non ce la fanno, oggi che si vende, che si mangia, cosa mangeranno i bambini? Oggi Salim ha la malaria, come farò a pagare la medicina e la visita dal dottore? Credo ci siano anche questi pensieri nella mente delle centinaia di donne e uomini che popolano la spiaggia di prima mattina, quotidiani compagni involontari della mia corsa. Questa mattina mi chiedevo cosa e come sognino i tanzaniani. Non lo so, non credo di aver mai chiesto esplicitamente cosa sognino ad oggi chiusi, sicuramente sognano diversamente da noi, se noi sogniamo un abete loro forse una palma, se noi sognamo di cadere da un grattacielo o da una montagna, loro che cosa sogneranno?
Nei nostri sogni ad occhi chiusi forse siamo più diversi che nei nostri sogni ad oggi aperti, a sogni aperti credo i nostri sogni e quelli dei tanzaniani si assomiglino molto: una casa, un lavoro, salari decenti, sicurezza per se stessi e per la famiglia, istruzione di qualità per i figli, salute e assistenza di qualità in caso di malattia, amicizie, affetti, buon rapporto con famigliari, parenti, amici e colleghi di lavoro, insomma, le cose che vogliamo tutti, qua forse il sogno è un po’ più lontano ma questo non significa necessariamente che la gente sia meno felice, che manchi il sorriso sul loro volto o la voglia di vivere, anzi.
Sorriso, voglia di vivere e sogni che non mancano ad Omari, tribù dei Wahehe, Iringa, nel sud-ovest, una delle regioni più prospere e attive del paese ma anche quella con il più alto tasso di AIDS, circa il 14% contro la media nazionale del 5,7%, più del doppio. Si è trasferito qui 4 mesi fa, non conosce quasi nulla di Bagamoyo, solamente la spiaggia dove va a passeggiare di domenica, il suo giorno libero, e la chiesa cattolica, dove va a messa.
Omari ha 17 anni e ha appena finito la scuola primaria, ha studiato solo 7 anni, ora lavora in un minuscolo bar, una stanza, uno scaffale con ogni tipo di soda e bevande alcoliche, 2 tavolini e 4 sedie di plastica. Arriva alle 10 di mattina con i pantaloni arrotolati a tre quarti e le sue ciabatte di plastica Bata, blu, apre la serranda e ci rimane fino alle 9-10 di sera.
I clienti non sono molti, Omari passa la maggior parte del tempo ad ascoltare musica, parlare con amici e passanti oppure con i clienti, come me.
Le auto passano, un autobus carico di gente suona il clacson, il vento accarezza la pelle, togliendo parte della fatica accumulata durante la giornata. Omari mi racconta un po’ della sua vita, voleva andare alle scuole superiori ma la scuola dista mezzora di autobus dal villaggio, il biglietto costa 50 centesimi di euro al giorno, andata e ritorno, che sommato al costo del pranzo (un altro mezzo euro) e al costo della divisa, delle scarpe, dei libri, quaderni e penne ha reso impossibile per la sua famiglia permettergli di studiare. Me lo dice mentre guarda, in lontananza lungo la strada, un gruppo di studentesse che ritornano da scuola nella luce del tramonto arancione di Bagamoyo. Sorride, un sorriso, vero, aperto, luminoso, gioioso, bellissimo, ma intuisco un fondo di tristezza per l’occasione sfumata. Si è trasferito sulla costa, qui a Bagamoyo. Un ragazzo del suo villaggio l’ha preceduto e gli ha detto che a c’erano  possibilità di trovare qualcosa da fare. Ora lavora al bar di proprietà di un dentista locale e di una funzionaria di una grossa ong, uno dei tanti business che possiedono. Il dentista e la funzionaria hanno due figlie, una ha quasi l’età di Omari, parla un ottimo inglese e sogna di andare all’università, magari all’estero, per ora va alla scuola privata, dove la retta mensile è il doppio dello stipendio di Omari, mondi diversi ma così vicini.
Anche Omari sogna, chissà che cosa...

E ora, il maestro Liniers in: "Messaggio a chi non prova a volare, a sognare..."
Traduzione:"Imparare a volare, non e' facile. Imparare a cadere, neanche. Pero' vivere a terra...annoia!"

domenica 5 febbraio 2012

Pieno, vuoto, intoppato?


Attenzione: questo post l'avevo scritto il 31 gennaio ed era destinato al mio vecchio blog: www.stefanobattain.splinder.com.
Splider ha chiuso senza che io riuscissi a fare un vero e proprio trasloco, scrivero' un post per aprile il nuovo blog, ma intanto, pubblico questo...

Gli appunti del viaggio in Messico sono ancora sul comodino, stropicciati e sbattuti qua e la. Le cartoline comprate e mai scritte ancora sul secondo scaffale. I ricordi dei giorni messicani e newyorkesi ancora vivi ma lontani, come un vivace sogno ad occhi aperti. Novembre, Dicembre, Gennaio: andati. 3 mesi, un soffio, tante le cose imparate, sbagliate, ma sopratutto vissute. Il rapido passaggio in un’Italia all’inizio dell’autunno ma in pieno inverno socio-politico, un’era moribonda di un paese vecchio e stanco. Per fortuna c’e’ ancora il calore di un abbraccio, la voglia di stare insieme e curarsi l’uno dell’altro. Per fortuna c’e’ ancora il sorriso di mia mamma e la risata immutata di mio padre ad illuminare i pochi giorni che ho trascorso in relax in Italia, vicino a Verona, con vecchi amici di famiglia, sempre cari, abbiamo pure vissuto il brivido di un terremoto.
Novembre e’  stato un fulmine, ritorno, visita con formazione dello staff da parte della nostra coordinatrice Marian ed era gia’ Dicembre. Dicembre che e’ stato reso unico da un fantastico weekend a Zanzibar e un viaggio in autobus sul lago Malawi, sponda malawiana e tanzaniana, entrambi affascinanti. Gennaio e’ stato un bel mix di lavoro intenso, accoglienza e condivisione di visitatori come padre Luigi e Valentina ma soprattutto il lungo ed emotivamente carico arrivederci a Daniela e Valentina, che dopo 11 mesi lasciano, (per il momento) la Tanzania e la nostra Bagamoyo.
E io qua, a difendermi dalle zanzare, al buio, la luce e’ saltata, e’ la terza volta oggi, nessuno sa il perche’, pochi se lo chiedono. Come l’ anno scorso, anche per quest’anno, da Febbraio ad Aprile continuera’ a mancare la luce in questo paese che chambia sempre ma non cambia mai.
Non ho scritto nel blog ultimamente, e mi spiace, sono stato intoppato, da cose belle, alcune bellissime, altre meno interessanti e a volte inutili. Inoltre c’e’ questa attivita’, che porto avanti, qualcuno lo chiama lavoro, qualcuno volontariato, altri missione, altri lo considerano un modo per non lavorare veramente. Comunque sia non e’ un’attivita’ da cui si stacca alle 5 del pomeriggio. Ho sempre voluto dedicare il mio tempo ad una attivita’ che contribuisse a migliorare un po' la vita degli altri, degli oppressi, degli emarginati, di quelli che sono relegati sul fondo di molte classifiche modiali ma non lo sanno. Da tempo ho cercato di limitare il piu possibile beni materiali superflui e passatempi inutili o distruttivi, con successo o meno. La maggior parte della mia giornata e’ in relazione di scambio con persone, vicine e lontane, con cui sto provando a costuire qualcosa. Oltre al lavoro provo a coltivare una vita sociale, con tutti i limiti che non analizzero in questo post. Ho scoperto che nonostante uno provi a riempire le sue giornate di affetti, valori positivi e persone che stima, a volte ci si intoppa, un po’ come una cena a buffet fatta fra amici, dove tutto e’ buono ma se uno assaggia tutto ed e’ ingordo di tutto finisce per non apprezzare niente. Ecco come si possono trasformare relazioni  potenzialmente meravigiose, persone preziose, occasioni speciali in eventi stressanti, vissuti con angoscia e troppa razionalita’. Anche l’ ingordigia di dare e ricevere affetti puo essere nociva. Paradossalmente esagerando il proprio lato umano, sociale, socievole ed impegnato si finisce per assomigliare a degli uomini d’affari concentrati sulla superficialita’, la carriera ed il denaro, anche loro sono intoppati, da altre cose, ma pur sempre intoppati. Il risultato e’ per certi versi simile, troppa testa e poco cuore, troppa razionalita’ e calcolo e poche emozioni vere e spontanee. La nostra anima viene soffocata, non riesce a respirare e fiorire, la spontaneita’ si perde perche tutto dev’essere calcolato, tutto deve avere una priorita’ ed ogni problema dev’essere affrontato e risolto. Forse a volte converebbe lasciarsi essere, lasciarsi portare, svuotarsi un po’, alleggerire la propria anima e lasciarla germogliare. Intopparsi di vita assomiglia molto a non avere una vita, ed cosi che, per esmpio, far crescere una relazione, anche con una persona fisicamente vicina, puo diventare difficile, quasi un fardello piuttosto che un piacere.
Svuotarsi aiuta, spero di riuscire a svuotarmi, spero febbraio mi aiutera’, svuotarsi e guardarsi dentro, per capire cosa davvero conta, cosa davvero ci fa vivere meglio e piu in pace con gli altri.
Non so come concludere questo post, e non so neppure se quello che ho scritto abbia molto senso ma credo che iniziare un mese di svuotamento riversando parte dei miei pensieri su una tastiera possa essere di buon auspicio. Gli appunti del Messico sono ancora sul comodino, nel frattempo e’ tornata la luce ma io la spegnero, come dovrei imparare a spegnere il mio cervello di tanto in tanto.

Cambia il nome del blog ma Liniers ci accompagna sempre:
Enriqueta dice: "Nei giorni in cui mi sento un po' avvilita...mi piace fermarmi sotto agli alberi e fingere che mi stiano applaudando"
Fellini (il gatto): "E serve?"