Il camino fuma in lontananza, “hanno
fatto ripartire la produzione di petrolio”, sostiene laconico Afayo: piccolo,
magro, spalle larghe, capelli rasati a zero come la maggior parte dei
sudsudanesi, viene dal sud Afayo e ha molti caratteri in comune con gli africani
che già conosco, parlando in inglese usa frasi come: “Mangerò il Natale a
Bentiu” per dire “Trascorrerò il Natale a Bentiu” oppure usa la parola “dolce”
per riferirsi a qualsiasi cosa saporita, anche fra quella salate: quell’animale
(una specie di faraona selvatica) è piu dolce del pollo”, un uso molto strano
per noi italiani. Afayo ha lo sguardo timido, spesso abbassa la testa quando
gli si pone una domanda, parla poco e mai a caso, a volte quando non vuole dire
le cose si morde le grandi e larghe labbra carnose, ha una bocca larga ma la
usa poco, in compenso sorride molto, sorride spesso. Quella bocca la ricorderò
per sempre, dopo aver trascorso una domenica sera ad illuminarla con la luce
del mio telefonino (la luce sul telefonino ha cambiato la vita di chi vive in
Africa) mentre un dottore ugandese gli strappava un dente cariato. Afayo è uno
degli autisti della nostra organizzazione, avrà 25 anni ma è un ragazzo calmo,
posato e responsabile, non beve e guida a velocità moderata, sempre, non suona
troppo il clacson, qualità rara qui, non insulta passanti distratti, bimbi
giocosi e lenti vecchi cenciosi che pullulano sulle polverose strade del Sud
Sudan. Afayo è una brava persona ed è facile lavorare con lui, mi piace davvero
molto e quando viaggiamo insieme è bello fare una chiacchierata con lui.
Sono in Sud Sudan da 4 mesi ormai, ma se penso ai miei primi e ormai già
lontani ricordi mi sembra di aver vissuto in due paesi completamente diversi.
Sono arrivato che le pianure del Sud Sudan settentrionale erano una distesa di smeraldo
peloso, una coperta verde di erba alta punteggiata da alberi verdi e
rigogliosi, tanti acquitrini, vaste pianure allagate a perdita d’occhio, il
fango era il compagno delle mie giornate. Nei campi profughi regnava il fango,
mescolato alle tracce biologiche dell’esistenza di questi esseri umani fuggiti
dalle montagne Nuba. sulle montagne si spara, e queste anime disperate sono
finite nel fango di Pariang a tirare avanti mangiando polenta di sorgo e
lenticchie, ricevute una volta al mese dall’Altro Commissario delle Nazioni
Unite per i Rifugiati. Sulle montagne Nuba si continua a sparare e la gente
continua a fuggire, circa 2,000 a settimana passano il confine ma qui il fango
si è asciugato ed è diventato rossa terra polverosa che il vento di fine
novembre alza e porta, sulla pelle, negli occhi, fra I capelli e più lontano.
Ad Addis Abeba i pasciuti politici di Juba e Khartoum hanno firmato
scartoffie simbolicamente importanti ma che difficilmente risolveranno una delle
questioni più complesse dell’attuale situazione geo-politica internazionale. La
creazione dello Stato del Sud Sudan ha creato almeno altrettanti problemi di
quanti non ne abbia risolti: incertezza sui confini e molti territori
contestati, traffici commerciali bloccati con pesanti conseguenze sulla
sicurezza alimentare ed il costo della vita per gli Stati del Sud Sudan
settentrionale legati a doppio filo a Khartoum, tensioni fra i due eserciti
alle prese con la guerriglia del Darfur, delle montagne Nuba e dello Stato del
Nilo Blu, tutti situati in Sudan ma al confine col Sud Sudan, tutti alleati
contro Khartoum e ora saldati in un Fronte Nazionale, segretamente ma poi neanche
tanto, appoggiato dal governo Sud Sudanese. Ma il fattore di gran lunga più
importante della contesa è la maledizione nera, chiamato anche, ingannevolmente,
“oro nero”.
Lo Stato di Unity (cioè Unità) galleggia letteralmente sul petrolio, niente
a che vedere con gli immense giacimenti petroliferi dell’ Iran, dell’Iraq,
della Nigeria o del Venezuela ma pur sempre importanti riserve di petrolio.
Il territorio è piatto, appoggiato sui
detriti millenari del serpeggiante e maestoso Nilo bianco e ricoperto di una
spessa vegetazione secca e giallastra, almeno in questo periodo dell’anno.
Questa non è l’Africa da cartolina, non è l’ Africa di turisti con cappelli
ridicoli e vestiti come David Livingstone e nemmeno l’Africa delle spiagge
bianche con le mucche e le donne avvolte da vestiti colorati, questa è l’arida
terra dei falchi e a giudicare dal numero di falchi, anche la terra delle
vipere e dei serpenti. Un ambiente duro, secco, primitivo, dove ogni goccia
d’acqua è preziosa e i falchi la fanno da padroni. In mezzo a questa campagna
dura ed incontaminata ci sono stormi di uccelli bellissimi, gialli, in stromi
di alcune centinaia che volano di campo in campo a mangiare il sorgo dei poveri
contadini, oppure rossi, come il sangue versato durante le battaglie combattute
da secoli fra Dinka e Nuer, tribù sorelle impegnate da sempre in una eterna ed
infinita lotta all’ultima mucca. Le mucche sì, talmente importanti e rispettate
che l’impostazione culturale dinka impone alle donne di starne lontane dalla
cura delle mucche, troppo importanti perché se ne occupino degli essere “deboli
ed inaffidabili” come le donne. L’unica cosa che le donne possono fare con le
mucche è mungerle, per tutto il resto l’uomo la fa da padrone e decide, e
spesso è l’unica cosa che fa. L’uomo solitamente delega alle donne tutto il
resto: il compito di crescere i bambini e le bambine, sfamarli, lavarli,
educarli e pensare a tutto ciò che serve per la casa dalla legna all’acqua,
dall’agricoltura al piccolo commercio. Dinka e Nuer popoli guerrieri e fieri,
dall’orgoglio feroce, impulsive, distruttivo e autodistruttivo, un orgoglio che
si riflette nella vita di tutti I giorni con conseguenze violente in una terra
dove sopravvive solo il più forte. Basta guardarli in faccia i Dinka e I Nuer,
sguardi severi, volti spigolosi, fronti basse, rigate per lungo da cicatrici
rituali che affondano le radici in una storia senza tempo, profondità e
memoria.
La piatta pianura intatta e selvaggia è stuprata da oasi di modernità
volgare, dietro una curva compare un mastodontico deposito di petrolio, appena
fuori un villaggio di fango e malaria ecco le tubature dell’ oleodotto che
porta questo veleno nero a Port Sudan. E allora forse si capisce perché questa
zona di confine sia cosi importante ed ambita. Ecco che forse si spiegano le
lunghe colonne di auto con mitragliatori, mortai e cannoni di gruppi ribelli in
sfilata in pieno giorno, braccia di menti fredde e corrotte che siedono a
pancia piena dietro agli scranni dei parlamenti nazionali. Sulle montagne Nuba
si uccide e si è uccisi, si fugge dalle bombe la vera partita si gioca altrove:
Juba, Khartoum, Washington, Pechino, Bruxelles. I falchi , I corvi e gli
avvoltoi che giocano sulla pelle dei sudanesi, giovani e vecchi, Dinka o Nuer
non importa, tutti fili d’erba della battaglia fra elefanti malati che
combattono per un mondo sempre più a rischio.
Basta guardarsi attorno mentre si percorrono le polverose piste di polvere
di Unity per capire perché il 100% dei pozzi d’acqua della contea di Koch sono gravemente
contaminate e l’acqua non adatta per il consumo umano. Pozzi avvelenati da metalli
pesanti che staranno nella terra argillosa, dura e secca per secoli, souvenir
ai posteri di una maledizione nera che prima o poi finirà. E le ONG che fanno?
Al momento raccomandano che è meglio berla quell’acqua inquinata piuttosto che
morire di sete, pensiero freddo, razionale e sensato ma terribilmente triste ed
ingiusto. Cosi si chiude la riunione delle ONG, un grido di rabbia e
disperazione mi si soffoca in gola, in fondo non ci si può far niente, per ora…
Da Liniers, con amore, per Daniela: