Raramente pubblico sul mio blog qualcosa non scritto da me, ma questa faccio volentieri un' eccezione.
Il 30 Novembre 2001 moriva mio nonno alvise, qualche mese prima avevo girato un'intervista di quasi due ore per avere una registazione dal vivo del racconto in prima persona della sua esperienza come soldato italiano durante la seconda guerra mondiale. Questa esperienza, dolorosa, vissuta fra il 23 e i 25 anni emergeva periodicamente nelle nostre conversazioni pomeridiane, quando, solitamente dopo una partita a calcetto o un giro in paese, passavo a salutare i mieni nonni. Questa storia è aspra, come la Lemonsoda che bevevo mentre mi raccontava queste cose, e amara come il caffè, spesso accompagnato dalla panna che sorseggiavo in questi momenti di chiaccherata fra nonno e nipote.
Qualche mese dopo ho copiato la cassetta VHS e passata a zii e cugini perchè la vedessero, molti fra loro non avevano quasi mai sentito questi racconti.
Ora Jessica, pro-nipote di Alvise, in quanto nipote di Mauro e figlia di Fulvia ha incluso nella sua tesina di quinta superiore, un riassunto, molto ben scritto dell'intervista a mio nonno Alvise.
Grazie Jessica, buona lettura:
Grazie Jessica, buona lettura:
Allo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale, Mussolini dichiarò la non belligeranza essendo consapevole
dell’impreparazione militare dell’esercito italiano; infatti il nostro
potenziale bellico non era ancora all’altezza di far fronte alle esigenze del
nuovo conflitto mondiale, in particolare l’artiglieria e gli armamenti erano
rimasti gli stessi delle guerra precedente, anche l’aviazione e gli automezzi
non reggevano il confronto. Ciò nonostante, già agli inizi del marzo ’40, gli
uomini che successivamente avrebbero formato parte dell’esercito italiano,
vennero chiamati alle armi e iniziarono un periodo di addestramento, in vista
della futura entrata in guerra. Tra questi c’era anche il mio bisnonno, che in
un’intervista realizzata da uno dei miei cugini pochi mesi prima che morisse,
racconta l’esperienza che personalmente ha vissuto durante la Seconda Guerra
Mondiale, soffermandosi principalmente sugli avvenimenti che seguono la firma
dell’armistizio dell’8 settembre ’43.
Dopo un discorso tenuto da
Mussolini, nel quale annunciava al popolo italiano l’imminente decisione di
entrare in guerra a fianco della Germania, i neo-soldati vennero mandati sul
confine occidentale per combattere quella che passò alla storia come la
Campagna di Francia. Non sapevano esattamente dove sarebbero arrivati, ma già
lungo il tragitto cominciarono a sentire i primi spari e a vedere i primi
feriti, capendo quindi di essere quasi giunti nel luogo dove la loro esperienza
di soldato sarebbe cominciata.
L’inadeguatezza del nostro
esercito, che viene riportata su tutti i libri di storia, veniva percepita
anche al fronte, infatti già dopo i primi combattimenti, i soldati cominciarono
a rendersi conto non solo della loro mancata preparazione, ma anche dell’arretratezza
dell’apparato bellico; inoltre i collegamenti da un fronte all’altro e l’arrivo
dei rifornimenti erano di gran lunga più lenti rispetto agli altri.
Successivamente venne
mandato a combattere in Grecia, Albania e Iugoslavia; si trovava proprio in
queste zone quando lo Stato italiano firmò l’armistizio dell’8 settembre.
La firma dell’armistizio
ebbe delle conseguenze disastrose per il nostro esercito, infatti i soldati si
trovarono di fronte ad un bivio: scegliere se continuare a combattere a fianco
dell’esercito tedesco o a fianco dei partigiani. Tutti coloro che, come il mio
bisnonno, erano dislocati fuori dell’Italia, furono colti di sorpresa, ma
soprattutto lasciati privi di ordini. Molti di loro, i quali non accettarono di
entrare volontariamente a far parte dell’esercito nazista, vennero catturati e
mandati a lavorare come prigionieri di guerra nei campi di concentramento.
Fu portato, assieme ad altri compagni
dell’Agordino e del Bellunese, nel campo di Neubrandenburg, nel nord della
Germania, all’interno del quale erano detenuti circa 3’000 uomini di tutte le
nazionalità ed età.
Dormivano dentro delle
baracche e ogni giorno dovevano svegliarsi alle 4.30 del mattino, uscire nel
cortile e mettersi in riga affinché gli ufficiali nazisti potessero contarli.
Una volta terminato ciò, in gruppo e scortati dai Tedeschi, si spostavano in
una fabbrica vicina, dove, la maggior parte delle volte, lavoravano fino a
tarda sera producendo apparecchi utilizzati nella guerra. Racconta che durante
i mesi di prigionia, la fabbrica venne bombardata due – tre volte, provocando
sempre gravi danni e morti; danni che i Tedeschi, tutto sommato, vedevano in
modo “ottimistico”, perché il giorno successivo al bombardamento cercavano
subito di ripristinarne il funzionamento.
Il cibo che ricevevano non
era molto, un chilo di pane da dividere per 12 persone, delle patate, delle
rape e alcune rare volte della margarina. Ogni giorno, a turno, chiamavano in
cucina tre – quattro uomini come aiuto cuoco per pelare le patate, stando ben
attenti che non nascondessero cibo sotto i vestiti per portarlo nella baracca;
ciò nonostante, una volta riuscì a prendere di nascosto qualche patata in più
da poter condividere con i suoi compagni. Il furto delle patate si ripeté anche
la Vigilia di Natale del ’43; dopo aver capito qual era il luogo dove ne
tenevano le riserve, una sera ne rubarono e ne cucinarono alcune, rendendo
leggermente più abbondante il cenone della Vigilia.
Esisteva all’interno delle
singole baracche un forte senso di cameratismo, anche tra compagni di
nazionalità diverse, mantenendo sempre un ottimo rapporto di condivisione e
amicizia, l’unico motivo per il quale si poteva litigare era per un pezzo di
pane o di patata.
Le temperature rigide e
umide del nord della Germania non furono sicuramente favorevoli, soprattutto
gli inverni ’43-’44 e ’44-’45 furono i periodi peggiori in assoluto; nel campo,
essendo in una conca circondata da colline, faceva meno freddo, rispetto al
gelo che si provava nello stabilimento dove lavoravano.
A volte, si sentiva la voce
di uomini che avevano tentato la fuga dal campo, ma che puntualmente venivano
scoperti, fermati e puniti pesantemente. Un giorno, passando vicino alla rete
che circondava il campo, si accorse che era rotta. Al di fuori, poco distante
da dov’era lui, vide un enorme sacco pieno di patate; decise quindi con un compagno
di tentare il furto, ma vennero sorpresi da tre ragazzini tedeschi che
passeggiavano lì vicino, i quali si accorsero subito delle intenzioni dei due
uomini e andarono a chiamare la polizia per denunciarli. Fortunatamente
riuscirono a rientrare dentro il campo prima dell’arrivo della polizia tedesca,
portando con sé anche poche patate.
Nel novembre del ’44 passò la Croce Rossa Internazionale, per controllare lo stato di salute
degli uomini presenti all’interno del campo. Dopo una visita veloce, lo dichiararono
inabile al lavoro a causa della febbre intestinale e lo mandarono in un luogo
chiamato Il Lazzaretto, dove venivano
rinchiusi tutti coloro che contraevano delle malattie o si infortunavano. Qui
vi rimase in cura per 8 giorni, durante i quali poté tirare un sospiro di
sollievo dalle fatiche della vita nel campo, nonostante la febbre alta non gli
permettesse né di parlare, né di muoversi; anche il cibo era migliore, perché
al posto delle rape e delle patate, mangiò per una settimana minestra d’orzo e
formaggio.
Gli esiti della guerra in
Europa, cominciarono a volgere a favore delle forze alleate, in particolare i
Russi iniziarono una controffensiva, che si sarebbe fermata solo con l’arrivo a
Berlino e la definitiva sconfitta del nazismo.
Ogni volta che all’interno
del campo suonava l’allarme di un attacco, i generali tedeschi cambiavano
improvvisamente il loro modo di comportarsi, rivelandosi uomini del tutto
“normali”, con debolezze e paure comuni a tutti, atteggiamento che ritornava
quello di prima non appena il pericolo era cessato. Per giorni questa
situazione di allarme si ripeté sentendo in lontananza continui spari, finché
il 28 aprile ’45 non arrivò una divisione corazzata sovietica a liberare il
campo, facendo scappare i Tedeschi e prendendo il controllo. Inizialmente gli
Italiani temevano i nuovi arrivati, perché non sapevano come avrebbero potuto
comportarsi, dal momento che l’Italia aveva dichiarato guerra e aveva
combattuto contro di loro. Malgrado tutte le paure, i Russi si rivelarono ben
presto migliori dei Tedeschi, esponendo subito un manifesto in tutte le lingue
dove garantivano una maggiore libertà, infatti potevano spostarsi da un campo
all’altro e andare anche in città, dove, però, alcuni reparti del SS
continuavano ad uccidere. Inoltre cominciarono ad essere informati sugli esiti
della guerra e su tutto quello che era successo dal momento dell’armistizio,
come gli orrori che succedevano negli altri campi di concentramento, poiché i
Tedeschi lo avevano sempre tenuto nascosto. Vennero suddivisi per nazionalità,
rendendoli riconoscibili da fasce di colori diversi che dovevano mettere al
braccio (gli Italiani, per esempio, avevano una fascia bianca, rossa e verde),
per poi essere mandati volta per volta a casa.
Ottenuto il via libera,
cominciò assieme ad altri Italiani il lungo viaggio di ritorno, partendo dal
campo con una camionetta militare, sostituita pochi chilometri dopo da un
trattore. In treno arrivarono in Austria, dove avveniva lo smistamento tra
Italiani del nord e del sud, per poi proseguire sempre in treno e scortati prima
dai Sovietici e successivamente dagli Americani verso l’Italia. Questi li
tennero rinchiusi nel treno al loro arrivo sul Lago di Garda, perché prima di
lasciarli liberi avevano il compito di interrogarli. Con gli altri Bellunesi
aspettò il treno per Belluno, ma a causa della guerra la linea ferroviaria
aveva subito dei danni, quindi da Vittorio Veneto dovettero proseguire con il pullman.
Al suo arrivo a Belluno, il primo volto familiare fu quello di un carabiniere
di Canale d’Agordo, che gli chiese se a casa sapevano che stava ritornando, dal
momento che dopo l’ultima licenza nel settembre ’42 e in particolare dopo
l’internamento nel campo non avevano più avuto notizia di lui, pensando di
conseguenza che fosse morto.
Dopo
due anni di prigionia, finalmente il tanto atteso ritorno a casa, accompagnato
da una grande gioia e felicità, ma allo stesso tempo da un senso di
disorientamento, perché non solo l’ambiente familiare lasciato cinque anni
prima, ma anche tutto il paese, erano notevolmente cambiati rispetto a come lui
se li ricordava. I primi giorni non uscì di casa, perché sfinito fisicamente e
privo di energie. L’unica cosa che portò con sé durante il viaggio di ritorno,
fu un violino, regalatogli da un francese nel campo e al quale fu sempre molto
legato.
E ora Enriqueta e Fellini, che ci spiegano perchè è importante la memoria:
E ora Enriqueta e Fellini, che ci spiegano perchè è importante la memoria:
1. Fellini: "So com'è la forma del cuore, la forma del cevello, la forma degli occhi" 2. Però com'è la forma della memoria? 3. Enriqueta: "Secondo la mamma la memoria ha la forma di giustizia"
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