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martedì 30 luglio 2013

Uomini in guerra

Raramente pubblico sul mio blog qualcosa non scritto da me, ma questa faccio volentieri un' eccezione.
Il 30 Novembre 2001 moriva mio nonno alvise, qualche mese prima avevo girato un'intervista di quasi due ore per avere una registazione dal vivo del racconto in prima persona della sua esperienza come soldato italiano durante la seconda guerra mondiale. Questa esperienza, dolorosa, vissuta fra il 23 e i 25 anni emergeva periodicamente nelle nostre conversazioni pomeridiane, quando, solitamente dopo una partita a calcetto o un giro in paese, passavo a salutare i mieni nonni. Questa storia è aspra, come la Lemonsoda che bevevo mentre mi raccontava queste cose, e amara come il caffè, spesso accompagnato dalla panna che sorseggiavo in questi momenti di chiaccherata fra nonno e nipote.
Qualche mese dopo ho copiato la cassetta VHS e passata a zii e cugini perchè la vedessero, molti fra loro non avevano quasi mai sentito questi racconti.
Ora Jessica, pro-nipote di Alvise, in quanto nipote di Mauro e figlia di Fulvia ha incluso nella sua tesina di quinta superiore, un riassunto, molto ben scritto dell'intervista a mio nonno Alvise.
Grazie Jessica, buona lettura:

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Mussolini dichiarò la non belligeranza essendo consapevole dell’impreparazione militare dell’esercito italiano; infatti il nostro potenziale bellico non era ancora all’altezza di far fronte alle esigenze del nuovo conflitto mondiale, in particolare l’artiglieria e gli armamenti erano rimasti gli stessi delle guerra precedente, anche l’aviazione e gli automezzi non reggevano il confronto. Ciò nonostante, già agli inizi del marzo ’40, gli uomini che successivamente avrebbero formato parte dell’esercito italiano, vennero chiamati alle armi e iniziarono un periodo di addestramento, in vista della futura entrata in guerra. Tra questi c’era anche il mio bisnonno, che in un’intervista realizzata da uno dei miei cugini pochi mesi prima che morisse, racconta l’esperienza che personalmente ha vissuto durante la Seconda Guerra Mondiale, soffermandosi principalmente sugli avvenimenti che seguono la firma dell’armistizio dell’8 settembre ’43.
Dopo un discorso tenuto da Mussolini, nel quale annunciava al popolo italiano l’imminente decisione di entrare in guerra a fianco della Germania, i neo-soldati vennero mandati sul confine occidentale per combattere quella che passò alla storia come la Campagna di Francia. Non sapevano esattamente dove sarebbero arrivati, ma già lungo il tragitto cominciarono a sentire i primi spari e a vedere i primi feriti, capendo quindi di essere quasi giunti nel luogo dove la loro esperienza di soldato sarebbe cominciata.
L’inadeguatezza del nostro esercito, che viene riportata su tutti i libri di storia, veniva percepita anche al fronte, infatti già dopo i primi combattimenti, i soldati cominciarono a rendersi conto non solo della loro mancata preparazione, ma anche dell’arretratezza dell’apparato bellico; inoltre i collegamenti da un fronte all’altro e l’arrivo dei rifornimenti erano di gran lunga più lenti rispetto agli altri.

Successivamente venne mandato a combattere in Grecia, Albania e Iugoslavia; si trovava proprio in queste zone quando lo Stato italiano firmò l’armistizio dell’8 settembre.
La firma dell’armistizio ebbe delle conseguenze disastrose per il nostro esercito, infatti i soldati si trovarono di fronte ad un bivio: scegliere se continuare a combattere a fianco dell’esercito tedesco o a fianco dei partigiani. Tutti coloro che, come il mio bisnonno, erano dislocati fuori dell’Italia, furono colti di sorpresa, ma soprattutto lasciati privi di ordini. Molti di loro, i quali non accettarono di entrare volontariamente a far parte dell’esercito nazista, vennero catturati e mandati a lavorare come prigionieri di guerra nei campi di concentramento.

Fu portato, assieme ad altri compagni dell’Agordino e del Bellunese, nel campo di Neubrandenburg, nel nord della Germania, all’interno del quale erano detenuti circa 3’000 uomini di tutte le nazionalità ed età.

Dormivano dentro delle baracche e ogni giorno dovevano svegliarsi alle 4.30 del mattino, uscire nel cortile e mettersi in riga affinché gli ufficiali nazisti potessero contarli. Una volta terminato ciò, in gruppo e scortati dai Tedeschi, si spostavano in una fabbrica vicina, dove, la maggior parte delle volte, lavoravano fino a tarda sera producendo apparecchi utilizzati nella guerra. Racconta che durante i mesi di prigionia, la fabbrica venne bombardata due – tre volte, provocando sempre gravi danni e morti; danni che i Tedeschi, tutto sommato, vedevano in modo “ottimistico”, perché il giorno successivo al bombardamento cercavano subito di ripristinarne il funzionamento.
Il cibo che ricevevano non era molto, un chilo di pane da dividere per 12 persone, delle patate, delle rape e alcune rare volte della margarina. Ogni giorno, a turno, chiamavano in cucina tre – quattro uomini come aiuto cuoco per pelare le patate, stando ben attenti che non nascondessero cibo sotto i vestiti per portarlo nella baracca; ciò nonostante, una volta riuscì a prendere di nascosto qualche patata in più da poter condividere con i suoi compagni. Il furto delle patate si ripeté anche la Vigilia di Natale del ’43; dopo aver capito qual era il luogo dove ne tenevano le riserve, una sera ne rubarono e ne cucinarono alcune, rendendo leggermente più abbondante il cenone della Vigilia.
Esisteva all’interno delle singole baracche un forte senso di cameratismo, anche tra compagni di nazionalità diverse, mantenendo sempre un ottimo rapporto di condivisione e amicizia, l’unico motivo per il quale si poteva litigare era per un pezzo di pane o di patata.
Le temperature rigide e umide del nord della Germania non furono sicuramente favorevoli, soprattutto gli inverni ’43-’44 e ’44-’45 furono i periodi peggiori in assoluto; nel campo, essendo in una conca circondata da colline, faceva meno freddo, rispetto al gelo che si provava nello stabilimento dove lavoravano.
A volte, si sentiva la voce di uomini che avevano tentato la fuga dal campo, ma che puntualmente venivano scoperti, fermati e puniti pesantemente. Un giorno, passando vicino alla rete che circondava il campo, si accorse che era rotta. Al di fuori, poco distante da dov’era lui, vide un enorme sacco pieno di patate; decise quindi con un compagno di tentare il furto, ma vennero sorpresi da tre ragazzini tedeschi che passeggiavano lì vicino, i quali si accorsero subito delle intenzioni dei due uomini e andarono a chiamare la polizia per denunciarli. Fortunatamente riuscirono a rientrare dentro il campo prima dell’arrivo della polizia tedesca, portando con sé anche poche patate.

Nel novembre del ’44 passò la Croce Rossa Internazionale, per controllare lo stato di salute degli uomini presenti all’interno del campo. Dopo una visita veloce, lo dichiararono inabile al lavoro a causa della febbre intestinale e lo mandarono in un luogo chiamato Il Lazzaretto, dove venivano rinchiusi tutti coloro che contraevano delle malattie o si infortunavano. Qui vi rimase in cura per 8 giorni, durante i quali poté tirare un sospiro di sollievo dalle fatiche della vita nel campo, nonostante la febbre alta non gli permettesse né di parlare, né di muoversi; anche il cibo era migliore, perché al posto delle rape e delle patate, mangiò per una settimana minestra d’orzo e formaggio.


Gli esiti della guerra in Europa, cominciarono a volgere a favore delle forze alleate, in particolare i Russi iniziarono una controffensiva, che si sarebbe fermata solo con l’arrivo a Berlino e la definitiva sconfitta del nazismo.
Ogni volta che all’interno del campo suonava l’allarme di un attacco, i generali tedeschi cambiavano improvvisamente il loro modo di comportarsi, rivelandosi uomini del tutto “normali”, con debolezze e paure comuni a tutti, atteggiamento che ritornava quello di prima non appena il pericolo era cessato. Per giorni questa situazione di allarme si ripeté sentendo in lontananza continui spari, finché il 28 aprile ’45 non arrivò una divisione corazzata sovietica a liberare il campo, facendo scappare i Tedeschi e prendendo il controllo. Inizialmente gli Italiani temevano i nuovi arrivati, perché non sapevano come avrebbero potuto comportarsi, dal momento che l’Italia aveva dichiarato guerra e aveva combattuto contro di loro. Malgrado tutte le paure, i Russi si rivelarono ben presto migliori dei Tedeschi, esponendo subito un manifesto in tutte le lingue dove garantivano una maggiore libertà, infatti potevano spostarsi da un campo all’altro e andare anche in città, dove, però, alcuni reparti del SS continuavano ad uccidere. Inoltre cominciarono ad essere informati sugli esiti della guerra e su tutto quello che era successo dal momento dell’armistizio, come gli orrori che succedevano negli altri campi di concentramento, poiché i Tedeschi lo avevano sempre tenuto nascosto. Vennero suddivisi per nazionalità, rendendoli riconoscibili da fasce di colori diversi che dovevano mettere al braccio (gli Italiani, per esempio, avevano una fascia bianca, rossa e verde), per poi essere mandati volta per volta a casa.
Ottenuto il via libera, cominciò assieme ad altri Italiani il lungo viaggio di ritorno, partendo dal campo con una camionetta militare, sostituita pochi chilometri dopo da un trattore. In treno arrivarono in Austria, dove avveniva lo smistamento tra Italiani del nord e del sud, per poi proseguire sempre in treno e scortati prima dai Sovietici e successivamente dagli Americani verso l’Italia. Questi li tennero rinchiusi nel treno al loro arrivo sul Lago di Garda, perché prima di lasciarli liberi avevano il compito di interrogarli. Con gli altri Bellunesi aspettò il treno per Belluno, ma a causa della guerra la linea ferroviaria aveva subito dei danni, quindi da Vittorio Veneto dovettero proseguire con il pullman. Al suo arrivo a Belluno, il primo volto familiare fu quello di un carabiniere di Canale d’Agordo, che gli chiese se a casa sapevano che stava ritornando, dal momento che dopo l’ultima licenza nel settembre ’42 e in particolare dopo l’internamento nel campo non avevano più avuto notizia di lui, pensando di conseguenza che fosse morto.

Dopo due anni di prigionia, finalmente il tanto atteso ritorno a casa, accompagnato da una grande gioia e felicità, ma allo stesso tempo da un senso di disorientamento, perché non solo l’ambiente familiare lasciato cinque anni prima, ma anche tutto il paese, erano notevolmente cambiati rispetto a come lui se li ricordava. I primi giorni non uscì di casa, perché sfinito fisicamente e privo di energie. L’unica cosa che portò con sé durante il viaggio di ritorno, fu un violino, regalatogli da un francese nel campo e al quale fu sempre molto legato. 

E ora Enriqueta e Fellini, che ci spiegano perchè è importante la memoria:
1. Fellini: "So com'è la forma del cuore, la forma del cevello, la forma degli occhi" 2. Però com'è la forma della memoria? 3. Enriqueta: "Secondo la mamma la memoria ha la forma di giustizia"

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