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sabato 14 dicembre 2013

Ghana, quando la scuola e' davvero per tutti


Si chiamano scuole Omega, come l’ultima lettera dell’alfabeto greco, ma forse, visti i risultati eccellenti, dovrebbe chiamarsi alfa, come la prima lettera dell’alfabeto greco.
il modello delle scuole Omega sono nate qualche anno fa da un’idea di Ken e Lisa Donkoh, ghanesi, e James Tooley, un professore inglese esperto in educazione. L’obiettivo e’ di fornire istruzione di qualita’ anche ai bambini e alle bambine provenienti da famiglie vulnerabili e senza i mezzi economici per permettere ai loro figli di accedere ad un’educazione decente.
La soluzione trovata dai fondatori delle Omega school e’ tanto semplice quanto innovativa, con ottimi risultati sia in termini di qualita’ dell’istruzione che di numero di bambini e bambine iscritti, quasi tutti provenienti dagli strati piu poveri della societa’ ghanese.
Per facilitare le famiglie a pagare, invece di tasse annuali, il pagamento e’ giornaliero, basato sulla effettiva presenza in aula testimoniata dal database della scuola, per accedere alla quale serve un badge identificativo, 15 giorni all’anno sono gratis per coprire alcuni giorni in cui la famiglia non possa davvero permettersi la tassa. In questa tassa giornaliera e’ anche incluso: una mini assicurazione che permette ai bambini di portare e termine gli studi anche in caso di morte dei genitore; un pasto caldo e sostanzioso ogni giorno ed, infine, un programma di trattamento dai vermi intestinali che spesso affliggono i bambini in Ghana, danneggiando la loro capacita di assorbire le sostanze nutrititve e quindi rallentandone lo sviluppo e l’apprendimento.

Per assicurare bassi costi e alta qualita’ i curricula scolastici sono elaborati da insegnanti di altissimo livello ma tradotti in lezione quotidiana da neo-laureati appositamente formati che accettano anche salari piu bassi di un insegnante con esperienza.

Ogni scuola Omega e’ anche dotata di libri, cancelleria e autobus a disposizione degli studenti, nonche’ di un moderno laboratorio computer alimentato da pannelli solari, il modello ha attratto investimenti ed e’ in continua espansione anche grazie alla sua semplicita, sostenibilita’ economica e ottimi risultati. Una recente valutazione esterna ed indipendente condotta dal Ministero dell’ educazione ghanese ha rivelato come gli studenti delle scuole Omega siano preparati tanti quanto se non di piu rispetto ad altre costosissime scuole private e decisamente molto piu preparati rispetto agli studenti della precaria scuola pubblica ghanese.

E ora un sorriso con Enriqueta, Fellini e l'istruzione:
"Immagino che qui ci siano un sacco di risposte...pero' io ancora non ho le domande"

martedì 26 novembre 2013

In Kenya, la savana di silicio

Konza city - La nuova cittadella futuristica a Nairobi

Nairobi, tragicamente balzata di recente su tutte le prime pagine dei giornali, notiziari TV e siti d’informazione, non è solo un centro di snodo turistico per safari e vacanze su spiaggie bianche e incontaminate. Negli ultimi anni, qui si è sviluppata la cosiddetta Silicon Savannah, la versione africana della Silicon Valley statunitense, il primo centro regionale per la promozione e lo sviluppo d’innovazioni, soprattutto in campo tecnologico e informatico.

Il suo fulcro si chiama iHub ed è un punto di riferimento globale, il primo nel suo genere in Africa nonché la realtà che ha ispirato un movimento di giovani africani a ideare e sviluppare tecnologie per il mercato locale.
I risultati sono già notevoli, basti pensare alle piattaforme per il trasferimento di denaro via telefono come mPesa, che hanno portato milioni di africani nel mondo dei pagamenti elettronici senza bisogno di banche, bancomat e carte di credito. O a M-Farm, la piattaforma che aggiorna contadini sul prezzo di mercato dei loro prodotti in maniera che possano ottenere un prezzo reale e non essere vittima di intermediari, accordandosi fra di loro per trovare un acquirente comune e ottenere un prezzo migliore.
Questi successi hanno anche attirato l’attenzione dei giganti dell’informatica come Google e Microsoft, che sempre più spesso inseriscono nei loro viaggi d’affari anche una visita alla Silicon Savannah.
Il segreto? Le 3 “C”: comunità, connettività e… caffeina. Creare una comunità innovativa richiede innanzitutto giovani formati e di talento, a  volte da assumere offrendo loro quote della società per cui lavoreranno.
In secondo luogo, i talenti hanno bisogno di un ambiente che li supporti e li guidi, e la guida spesso viene da keniani ritornati dopo esperienze negli Stati Uniti – magari dopo aver lavorato nella Silicon Valley – i quali offrono anche modelli di successo da imitare e, possibilmente, da migliorare.
La connettività si basa su una rete solida e affidabile, un mercato della tecnologia cellulare ormai consolidato. Oltre a questo, servono anche legami commerciali internazionali con i vicini in Tanzania, Rwanda, Uganda e l’emergente Sud Sudan, ma anche con India e Stati Uniti.
Infine, la caffeina: il riferimento è a Pete’s Coffee, il bar che con i suoi caffè ha dato la sveglia alla rivoluzione tecnologica keniana, luogo d’incontro dove nascono nuove idee.


L’Italia non ha nulla da invidiare riguardo all’ ultima delle 3 “C”, riguardo alle altre 2 la situazione e' meno rosea nel Bel Paese, soprattutto perche' i nostri migliori talenti, una volta all’ estero, raramente tornano.

E dopo la tecnologia, un po' di sport con Enriqueta e Fellini:


lunedì 16 settembre 2013

L' Africa in movimento

Photo by: Daniela Biocca

L’ Africa è in movimento, in Africa le persone sono in movimento, in Africa i soldi sono in movimento. Ormai, ogni compagnia telefonica ha un suo nome: M-pesa, Tigo pesa, Airtel Money, Ezy Pesa, ed un suo colore: rosso Vodacom, blu Tigo, rosso Airtel e nero-verde Zantel. In Tanzania, in pochi anni sono proliferati centiaia di cartelli colorati in ogni villaggio, quartiere e cittá. I cartelli segnalano che da quel negozio è possibile inviare e ricevere denaro in tempo reale e a costo zero.
Le compagnie usano nomi diversi, ma sono tutti sinonimi dello stesso fenomeno dilagante: il trasferimento di denaro in tempo reale attraverso la rete telefonica (ed utilizzando la tecnologia telefonica). Le somme possono variare da pochi euro fino a centinaia di euro, il motivo per inviarli può essere semplice come pagare il taxi o più importante come mandare i soldi per pagare le tasse al figlio che studia a mille chilometri di distanza, il tutto in pochi secondi e da ogni punto di invio-ricezione di denaro. Il figlio dall’altro capo del paese, dopo pochi secondi puo’ recarsi in un qualsiasi punto di invio-ricezione e ritirare il contate per pagare le tasse.
In Tanzania, le banche sono poche, spesso lontante 3-4 ore di autobus sovraffollatti, spesso con 2 filiali che servono un bacino di clienti di 200-300 mila persone o più. Le banche, in Tanzania, sono costose e molto spesso inefficienti mentre i punti di invio-ricezione sono centinaia di migliaia, aperti spesso dalla mattina presto fino alla sera, senza le file che spesso si incontrano in banca e molto più amichevoli per il cliente.
Inoltre, la banca è spesso fonte di paura e diffidenza, questo luogo freddo e distaccato, dove un bancario, spesso stressato, scortese e con scarso spirito di servizio ti parla dall’altra parte del vetro, suscita reverenza e timore. Per molta gente delle zone rurali, recarsi in banca è estremamente difficile e complicato. Al contrario, andare ed inviare o ricevere i soldi in un semplice negozio, accolti da un addetto vestito come gli stessi clienti, magari in ciabatte e maglietta, rende l’esperienza molto piu’piacevole.
Photo by: Daniela Biocca

Il servizio è interamente gratuito se il numero è registrato ed abilitato ad accedere al servizio (a basso costo se il numero non e’ registrato), un’ operazione molto semplice, che richiede pochi secondi e può essere eseguita in uno dei migliaia di punti di invio di denaro, spesso semplici stanze disadorne con un cellulare ed una cassettina per i soldi. Gli addetti devono solamente saper contare i soldi e saper usare un cellulare, cosa che al giorno d’oggi, anche in Africa, tutti sanno fare, perciò la formazione degli addetti è molto breve. Il servizio è semplice, efficiente e funziona con qualsiasi tipo di cellulare.
Oltre all’incredibile diffusione e udo dei telefoni cellulari, altri motivi che spiegano il successo del trasferimento di contanti via rete telefonica sono: la struttura delle famiglie africane, il concetto di famiglia allargata e le condizioni di vita in questo continente imprevedibile. Le famiglie sono numerose, spesso formate da mamma, papa’ e 5,6 o anche piu’ figli, ai quali, si aggiungono nonni, zii, zie e figli o nipoti “adottati” in maniera informale. Succede spesso che una famiglia abbiente prenda sotto la sua responsabilita’ i figli dei parenti più poveri oppure veri e propri orfani, che sono tanti, viste le morti premature causate dall’ AIDS, la malaria, altre malattie letali e servizi sanitari poveri ed inadeguati.
Inoltre, la famiglia allargata in Tanzania, e’ anche mobile, per motivi di studio e di lavoro, i tanzaniani si trasferiscono e viaggiano molto frequentemente, capita spesso di sentire di persone che hanno frequentato le scuole elementari al nord, le superiori nella capitale e che hanno avuto il primo impiego nell’ovest del paese per poi trasferirisi altre 2 o 3 volte nel giro di pochi anni. Questa alta mobilita’ e legami famigliari estesi in un ambiente imprevedibile e difficile, come quello africano, rendono ancora piu’ importante avere accesso continuo ad informazioni e denaro contante, attraverso il cellulare e ai servizi di “denaro-mobile”.


Il trasferimento in tempo reale di denaro e’ solo il primo, piu’ comune e semplice dei servizi offerti. Ormai le compagnie telefoniche offrono veri e propri conti bancari virtuali dove accumulare contanti e con cui pagare bollette dell’elettricita’, dell’acqua o dei canali televisivi a pagamento. L’Africa e’in movimento, ed ha il cellulare in mano.

Liniers, con l'arte dei colori e della tenerezza:
"Passavi giusto da queste parti, vedi un po'..."

lunedì 2 settembre 2013

Storie di bottiglie


Sono una bottiglia di plastica, bella alta, trasparente, pulita. Sto in un frigorifero pieno di cose da mangiare, pomodori, insalata, olive, yogurt, di tanti colori diversi, dei pezzi che sembrano fatti di latte ma duri, altre scatole colorate che non so cosa contengano. Ognitanto la signora che mi ha portato qui mi prende, mi toglie il tappo (lei non lo sa ma a me da un po’ fastidio) appoggia le labbra, rosse, turgide, morbide, beve l’acqua dentro di me a grandi sorsi, con forza decisione, quasi disperata. Molto spesso e’ vestita in maniera sportiva, quando arriva e’ ancora sudata, parla in quel coso nero che appoggia all’orecchio, chissa’ con chi. Parla di liti, gelosia, conflitti, si sente sola. Mi sa che lo e’, io la vedo poco ma e’ sempre di corsa, sempre stressata, mai una parola dolce, non l’ho mai sentita sussurrare, grida sempre, chissa perche. Io sto bene, non mi lamento, sai, sono nata alla periferia di Roma, ero blu, mi hanno portato da Roma in Umbria, riempito di acqua, gas e pure messo un’etichetta colorata che mi ha fatto il solletico. Dopodiche’ mi hanno chiuso in un camion al buio e fatto viaggiare per un giorno intero, quando ho rivisto la luce ero a fianco di tante altre bottiglie come me in un posto luccicante e luminoso. La signora che mi ha comprato mi ha scleto perche dice che anche se costo un po’di piu’ le faccio fare tanta plim plim chissa’ cosa significa costare...chissa’cos’e questa plim plim
Sono una bottiglia di plastica, piccolina, ammaccata, con qualche graffio ee l’etichetta strappata. Sono nella tasca di una giacca, il signore che mi ha comprato mi prende in mano di tanto in tanto, mi toglie il tappo e beve piano piano. Parla con un signore dalla pelle del colore della sua, diceh che oggi ha venduto poco, per strada, solo 5 accendini e 2 pacchetti di fazzoletti, e’ un po’ preoccupato, fra 3 settimane inizia la scuola e lui deve pagare le tasse, gli zaini nuovi, il libri e tutta la cancelleria per mandare 3 dei 5 figli a scuola. E’ molto magro, attraverso la giacca posso sentire le sue costole, parla in modo strano, diverso dagli operai della fabbrica dove sono nata, dice che se continua cosi se ne va in Francia, dove un suo cugino ha una pizzeria alla periferia di Parigi. Non sembra contento, dice che in un posto chiamato Damasco era ingegnere in una piccola fabbrica ma che da ormai una anno e’ in Italia e si “arrangia” chissa cosa vuol dire arrangiarsi, non sembra contento, non dev’essere una bella cosa. Lui si ne ha fatta di strada, dalla Turchia attraverso i Balcani e poi in Albania, che viaggio! Dice che cosi almeno i suoi figli sono al sicuro anche se gli e’ costato i risparmi di 20 anni di lavoro.
Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere nata in Kenya, o in Uganda, appena nata, dopo 3 giorni di viaggio mi hanno portato in un negozio polveroso, ero esposta su uno scaffale in un negozio davanti alla moschea, il posto si chiama Pariang, dicono che sia da qualche parte in uno stato nuovo, che si chiama Sud Sudan. Un uomo con la pancia, la giacca e la cravatta che la gente chiama onorevole mi ha comprata. Avidamentem mi ha afferrata e ha bevuto quasi la meta’ dell’acqua che avevo dentro. Mi teneva stretta, con le sue mani grandi, lunghe e sudate. Siamo andati in uno spiazzo pieno di tende bianche che chiamano campo rifugiati, e’ sceso dal fuoristrada bianco, ha dato un ultimo sorso alla poca acqua rimasta, si e’ asciugato con le mani la bocca grande e ha orgogliosamente detto: “Facciamo in fretta che ho fame”. Ha fatto un giro nel campo rifugiati, una distesa marrone e verde, allagata per le piogge degli ultimi 2 mesi, con migliaia di uomini donne e bambini, dicono che sono stranieri ma e me sembrano uguali agli altri. Dopo che il signore alto mi ha gettato per terra sono stata raccolta da una bambina, avra’ 4 o 5 anni, piccolina, magra, scalza,fango fino alle ginocchia e delle meravigliose treccine chiuse in elastici gialli, rosa, rossi e azzurri. Quando mi ha visto il suo viso si e’ aperto in un grande sorriso bianco, grindando:”crystal!” felicissima mi ha preso in mano come nessuno aveva mai fatto, con affetto, sorpresa e devozione. Mi ha preso, portata ad un rubinetto e mi ha riempito d’acqua contentissima ha appoggiato le sue labbra sottile ed un po’screpolate, poi mi ha passata ad una sua amica anche lei lunga magra e dai vestiti sporchi e stracciati. Con me in mano mi sembrano felici, giocano, guardano dentro, mi accarezzano, mi sento amata e venerata come un oggetto nuovo e speciale, nessuno mi aveva mai fatto sentire cosi prima, voglio bene a queste bimbe che mi hanno accolto e amato.
Sono una bottiglia di plastica, e’ ancora buio, non vedo l’ora che finisca questa notte, fa freddo, ieri sera un tipo pallido, con la barba, che guidava una macchina bianca mi ha gettato dalla sua auto in corsa, puzzava di birra. Ora sono qui, sulla rossa terra del Sud Sudan, sono a Wau, stanotte ha anche piovuto, e a pochi metri da me vedevo delle sagome scure appoggiate al muro, sembravano dei sacchi neri, nel buio mi sono addormentata ma ad un certo punto ho sentito delle voci, i sacchi neri hanno iniziato a prendere vita, a parlare a salutarsi, a stiracchiarsi, sorridere e scherzare. Piano piano, nel buio della notte di Wau hanno iniziato a raccogliere pezzi di carta, legno e plastica, li hanno messi insieme e hanno acceso un fuoco, erano in 5 o 6 intirizziti dal freddo e dalla pioggia torrenziale di questa notte equatoriale. Sono tutti ragazzi, alti magri, hanno cicatrici e ferite, i loro occhi a volte quardano in direzioni diverse, i capelli sono secchi, ispidi e impolverati. Alle prime luci del mattino un ragazzetto dallo sguardo vispo mi ha visto e gridando mi ha afferrato ridendo e prendendo in giro gli altri. Dopo circa mezz’ora che mi teneva in mano mi ha versato dentro una sostanza bianca, appiccicosa, densa e dall’odore pungente e penetrante. A me non piace questa sensazione, sono abituata ad avere acqua pura dentro di me, invece questo bimbo dispettoso mi ha messo dentro una cosa che lui chiama “colla” chissa cosa sara’. Sono le prime luci dell’alba, il sole sorge dietro le colline di Wau, arancione sopra i manghi, gli uccelli si alzano in volo, neri contro il cielo rosato dell’alba, il bimbo toglie il tappo, appoggia le labbra e aspira l’aria mista a colla che penetra nei suoi polmoni ed arriva dritta al cervello. Un avvoltoio gracchia e scava fra la spazzatura mentre il fuoco acceso dai bimbi continua ad esalare odore di plastica, poverta’ ed ingiustizia.

E’ mezzogiorno, il bimbo aspira, due, tre, quattro volte; il sole, brillante, e’ alto nel cielo ormai ma gli oggi del bimbo si socchiudono ed il suo cervello si spegne come la luce del sole al tramonto. Il bimbo, spossato e spento, si siede per terra, stordito e sonnolento, dimenticando la fame ed il dolore, come una luna stanca e sporca.

Ora un tramonto, reso ancora piu' poetico da Liniers e i suoi pinguini:
1. "Se ne va di nuovo..."   2. "Hai detto qualcosa che lo puo' aver offeso?"

sabato 24 agosto 2013

La luna e il ramadan


Silenzio…trattengo il fiato, ho gli occhi chiusi, non vedo…sento i polmoni gonfi...tutto è ovattato sott’acqua. Silenzio...questo liquido fresco mi scivola lungo il corpo provocandomi brividi alla schiena. Silenzio...trattengo il fiato...è buio. Emergo in superficie...respiro...i polmoni si aprono di nuovo. La cassa toracica si espande per raccogliere più ossigeno possibile. Appena emerso, l’acqua mi cola ai lati della testa, lasciando i capelli piatti e bagnati, aderenti, come una medusa sul mio cranio, una medusa che scende lungo il collo accarezzando la mia pelle. Apro gli occhi, è quasi notte, il sole è tramontato da un po’, la luna, un sorriso bianco e luminoso, distesa come a riposarsi su tappeto nero punteggiato di stelle. La luna distesa a riposarsi, come molti musulmani a quell’ora, stesi su stuoie ed intenti a mangiare l’ iftar (o futari nella versione tanzaniana), il pasto che rompe il digiuno.
Guardo la luna, la luna di Bagamoyo, nuoto nell’acqua già fresca della sera, sono solo, c’è silenzio, questo bagno mi ha tonificato, è strano fare il bagno di notte ma mi piace. In questo periodo dell’anno oltre un milione di persone sulla terra celebrano il loro mese sacro, il ramadan. Un po’ meno di un mese, circa 28 giorni, i più importanti dell’anno per i musulmani. Un periodo dedicato a Dio, alla preghiera, al raccoglimento, alla rinuncia, anzi alle rinunce, come prescrive il Corano.
Si associa spesso il ramadan al digiuno, ma il digiuno è solo uno degli aspetti di questo importantissimo periodo spirituale. L’intera esperienza del ramadan è molto più complessa di quanto generalmente si pensi. Seguire le prescrizioni coraniche è importante tutto l’anno per chi è fedele, ma lo diventa a maggior ragione in questo periodo dell’anno. Succede infatti che anche i musulmani “tiepidi”, ovvero coloro che non sempre seguono alla lettera le regole religiose: lasciandosi anche andare a qualche birra il sabato, un po’di carne di maiale di tanto in tanto, spesso in questo periodo diventano molto più osservanti. Rinunciano completamente a tutte le tentazioni, anche se poi spesso vengono ripreseimmediatamente dopo la tanto attesa fine del ramadan.
Bianchi come la luna, bisogna essere, durante il ramdam. L’anima pura, candida, non infuocata dalle passioni, nemmeno dalle “passioni matrimoniali”, nemmeno pensieri o sogni infuocati. Durante il ramadam bisogna sopire queste fiamme e lasciare spazio alla pace, alla tranquilla, alla purificazione al lavaggio interiore. La “penitenza” per chi si lascia infiammare dalle passioni carnali e’ assai severa (o costosa): digiunare per lteriori 60 giorni, oppure comprare un pasto medio per 60 persone povere. Un lavaggio e un ciclico svuotarsi e riempirsi quotidiano, come fa la luna durante un ramadan che si riempie e si svuota, cosi fanno i fedeli. Niente cibo e bevande per l’intera giornata per poi riempirsi a tempo dovuto e con i modi prescritti.
Ma c’e’ anche chi puo’ mangiare e bere in maniera normale: i bimbi, le donne in dolce attesa, gli anziani ammalati, le persone sieropositive e tutti gli ammalati gravi in generale ma anche due categorie assai particolari, e a volte sovrapposte: i viaggiatori e i matti.
Vivere in un luogo a larga maggioranza musulmana durante il periodo del ramadan è un’esperienza da provare, a Bagamoyo, in Tanzania, per esempio, tutto rallenta, ulteriormente. Il traffico diminuisce, ci sono meno persone in bar e ristoranti ma anche negli uffici. Nei villaggi più rurali si formano capannelli di persone sdraiate su stuoie per lunghissime ore all’ombra di qualche mango, alla domanda: ”Cosa fate?” la risposta è candidamente: “Tunafunga” (Digiuniamo), noi occidentali, cresciuti a pane, efficienza e produttivismo, facciamo fatica a capire come il “non fare niente”, il “digiunare” possa essere un’attività. In realtà, il concetto di ramadan è assolutamente affascinante, rallentare il ritmo della nostra vita, delle nostre attivitià, eliminare le attività di distrazione per concentrarsi sulla spiritualità, sull’interiorità, sulla preghiera, sull’introspezione, sulla riflessione, sul migliorarsi. 
Il ramadam in Tanzania sa di lampade a nafta che illuminano i volti nel buio della notte equatoriale, sa di cassava bollita in salsa di cocco, di spaghetti stracotti e dolci, sa di fagioli, odora di uji (farina cucinata con acqua e spezie da qui si ricava una bevanda liquida ma densa) che rompe il digiuno, il ramadan a Bagamoyo ha il rumore delle moto cinesi che passano e di quelle che si riaccendono dopo che i loro guidatori si sono rifocillati, ma anche quello dei bambini che per tutto il ramadan girano per le strade con dei tamburi improvvisati a cantare. Il ramadan ha ovviamente anche il rumore del muezzin che chiama alla preghiera nella moschea. Il ramadan è una famiglia felice che mangia insieme su una stuoia punteggiata di stelle e la luna sopra la testa. Il ramadan non segue il calendario occidentale, per questo inizia circa una settimana solare prima ogni anno. Il ramadan segue la luna, si inizia con una lamina sottile di luna che cresce fino ad essere piena, questo segna la metà del ramadan, la luna con la pancia piena ed i fedeli intenti a riempirsela prima di iniziare il digiuno del giorno dopo. Poi la luna di svuota lentamente, giorno dopo giorno, per scomparire brevemente prima della grande festa finale di eid-al-fitr.Un tripudio di vestiti nuovi, piccoli giocattoli, pasti in famiglia e passeggiate in spiaggia, avanti ed indietro in spiaggia finchè lei, la signora luna, elegante regolatrice della vita spirituale musulmana, ricompare, bianca e sottile sopra l’oceano all’imbrunire, stiracchiandosi sulla sua imensa stuoia stellata.


I pinguini e la luna:
Il giorno che cada quella palla di neve...tieniti forte

martedì 30 luglio 2013

Uomini in guerra

Raramente pubblico sul mio blog qualcosa non scritto da me, ma questa faccio volentieri un' eccezione.
Il 30 Novembre 2001 moriva mio nonno alvise, qualche mese prima avevo girato un'intervista di quasi due ore per avere una registazione dal vivo del racconto in prima persona della sua esperienza come soldato italiano durante la seconda guerra mondiale. Questa esperienza, dolorosa, vissuta fra il 23 e i 25 anni emergeva periodicamente nelle nostre conversazioni pomeridiane, quando, solitamente dopo una partita a calcetto o un giro in paese, passavo a salutare i mieni nonni. Questa storia è aspra, come la Lemonsoda che bevevo mentre mi raccontava queste cose, e amara come il caffè, spesso accompagnato dalla panna che sorseggiavo in questi momenti di chiaccherata fra nonno e nipote.
Qualche mese dopo ho copiato la cassetta VHS e passata a zii e cugini perchè la vedessero, molti fra loro non avevano quasi mai sentito questi racconti.
Ora Jessica, pro-nipote di Alvise, in quanto nipote di Mauro e figlia di Fulvia ha incluso nella sua tesina di quinta superiore, un riassunto, molto ben scritto dell'intervista a mio nonno Alvise.
Grazie Jessica, buona lettura:

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Mussolini dichiarò la non belligeranza essendo consapevole dell’impreparazione militare dell’esercito italiano; infatti il nostro potenziale bellico non era ancora all’altezza di far fronte alle esigenze del nuovo conflitto mondiale, in particolare l’artiglieria e gli armamenti erano rimasti gli stessi delle guerra precedente, anche l’aviazione e gli automezzi non reggevano il confronto. Ciò nonostante, già agli inizi del marzo ’40, gli uomini che successivamente avrebbero formato parte dell’esercito italiano, vennero chiamati alle armi e iniziarono un periodo di addestramento, in vista della futura entrata in guerra. Tra questi c’era anche il mio bisnonno, che in un’intervista realizzata da uno dei miei cugini pochi mesi prima che morisse, racconta l’esperienza che personalmente ha vissuto durante la Seconda Guerra Mondiale, soffermandosi principalmente sugli avvenimenti che seguono la firma dell’armistizio dell’8 settembre ’43.
Dopo un discorso tenuto da Mussolini, nel quale annunciava al popolo italiano l’imminente decisione di entrare in guerra a fianco della Germania, i neo-soldati vennero mandati sul confine occidentale per combattere quella che passò alla storia come la Campagna di Francia. Non sapevano esattamente dove sarebbero arrivati, ma già lungo il tragitto cominciarono a sentire i primi spari e a vedere i primi feriti, capendo quindi di essere quasi giunti nel luogo dove la loro esperienza di soldato sarebbe cominciata.
L’inadeguatezza del nostro esercito, che viene riportata su tutti i libri di storia, veniva percepita anche al fronte, infatti già dopo i primi combattimenti, i soldati cominciarono a rendersi conto non solo della loro mancata preparazione, ma anche dell’arretratezza dell’apparato bellico; inoltre i collegamenti da un fronte all’altro e l’arrivo dei rifornimenti erano di gran lunga più lenti rispetto agli altri.

Successivamente venne mandato a combattere in Grecia, Albania e Iugoslavia; si trovava proprio in queste zone quando lo Stato italiano firmò l’armistizio dell’8 settembre.
La firma dell’armistizio ebbe delle conseguenze disastrose per il nostro esercito, infatti i soldati si trovarono di fronte ad un bivio: scegliere se continuare a combattere a fianco dell’esercito tedesco o a fianco dei partigiani. Tutti coloro che, come il mio bisnonno, erano dislocati fuori dell’Italia, furono colti di sorpresa, ma soprattutto lasciati privi di ordini. Molti di loro, i quali non accettarono di entrare volontariamente a far parte dell’esercito nazista, vennero catturati e mandati a lavorare come prigionieri di guerra nei campi di concentramento.

Fu portato, assieme ad altri compagni dell’Agordino e del Bellunese, nel campo di Neubrandenburg, nel nord della Germania, all’interno del quale erano detenuti circa 3’000 uomini di tutte le nazionalità ed età.

Dormivano dentro delle baracche e ogni giorno dovevano svegliarsi alle 4.30 del mattino, uscire nel cortile e mettersi in riga affinché gli ufficiali nazisti potessero contarli. Una volta terminato ciò, in gruppo e scortati dai Tedeschi, si spostavano in una fabbrica vicina, dove, la maggior parte delle volte, lavoravano fino a tarda sera producendo apparecchi utilizzati nella guerra. Racconta che durante i mesi di prigionia, la fabbrica venne bombardata due – tre volte, provocando sempre gravi danni e morti; danni che i Tedeschi, tutto sommato, vedevano in modo “ottimistico”, perché il giorno successivo al bombardamento cercavano subito di ripristinarne il funzionamento.
Il cibo che ricevevano non era molto, un chilo di pane da dividere per 12 persone, delle patate, delle rape e alcune rare volte della margarina. Ogni giorno, a turno, chiamavano in cucina tre – quattro uomini come aiuto cuoco per pelare le patate, stando ben attenti che non nascondessero cibo sotto i vestiti per portarlo nella baracca; ciò nonostante, una volta riuscì a prendere di nascosto qualche patata in più da poter condividere con i suoi compagni. Il furto delle patate si ripeté anche la Vigilia di Natale del ’43; dopo aver capito qual era il luogo dove ne tenevano le riserve, una sera ne rubarono e ne cucinarono alcune, rendendo leggermente più abbondante il cenone della Vigilia.
Esisteva all’interno delle singole baracche un forte senso di cameratismo, anche tra compagni di nazionalità diverse, mantenendo sempre un ottimo rapporto di condivisione e amicizia, l’unico motivo per il quale si poteva litigare era per un pezzo di pane o di patata.
Le temperature rigide e umide del nord della Germania non furono sicuramente favorevoli, soprattutto gli inverni ’43-’44 e ’44-’45 furono i periodi peggiori in assoluto; nel campo, essendo in una conca circondata da colline, faceva meno freddo, rispetto al gelo che si provava nello stabilimento dove lavoravano.
A volte, si sentiva la voce di uomini che avevano tentato la fuga dal campo, ma che puntualmente venivano scoperti, fermati e puniti pesantemente. Un giorno, passando vicino alla rete che circondava il campo, si accorse che era rotta. Al di fuori, poco distante da dov’era lui, vide un enorme sacco pieno di patate; decise quindi con un compagno di tentare il furto, ma vennero sorpresi da tre ragazzini tedeschi che passeggiavano lì vicino, i quali si accorsero subito delle intenzioni dei due uomini e andarono a chiamare la polizia per denunciarli. Fortunatamente riuscirono a rientrare dentro il campo prima dell’arrivo della polizia tedesca, portando con sé anche poche patate.

Nel novembre del ’44 passò la Croce Rossa Internazionale, per controllare lo stato di salute degli uomini presenti all’interno del campo. Dopo una visita veloce, lo dichiararono inabile al lavoro a causa della febbre intestinale e lo mandarono in un luogo chiamato Il Lazzaretto, dove venivano rinchiusi tutti coloro che contraevano delle malattie o si infortunavano. Qui vi rimase in cura per 8 giorni, durante i quali poté tirare un sospiro di sollievo dalle fatiche della vita nel campo, nonostante la febbre alta non gli permettesse né di parlare, né di muoversi; anche il cibo era migliore, perché al posto delle rape e delle patate, mangiò per una settimana minestra d’orzo e formaggio.


Gli esiti della guerra in Europa, cominciarono a volgere a favore delle forze alleate, in particolare i Russi iniziarono una controffensiva, che si sarebbe fermata solo con l’arrivo a Berlino e la definitiva sconfitta del nazismo.
Ogni volta che all’interno del campo suonava l’allarme di un attacco, i generali tedeschi cambiavano improvvisamente il loro modo di comportarsi, rivelandosi uomini del tutto “normali”, con debolezze e paure comuni a tutti, atteggiamento che ritornava quello di prima non appena il pericolo era cessato. Per giorni questa situazione di allarme si ripeté sentendo in lontananza continui spari, finché il 28 aprile ’45 non arrivò una divisione corazzata sovietica a liberare il campo, facendo scappare i Tedeschi e prendendo il controllo. Inizialmente gli Italiani temevano i nuovi arrivati, perché non sapevano come avrebbero potuto comportarsi, dal momento che l’Italia aveva dichiarato guerra e aveva combattuto contro di loro. Malgrado tutte le paure, i Russi si rivelarono ben presto migliori dei Tedeschi, esponendo subito un manifesto in tutte le lingue dove garantivano una maggiore libertà, infatti potevano spostarsi da un campo all’altro e andare anche in città, dove, però, alcuni reparti del SS continuavano ad uccidere. Inoltre cominciarono ad essere informati sugli esiti della guerra e su tutto quello che era successo dal momento dell’armistizio, come gli orrori che succedevano negli altri campi di concentramento, poiché i Tedeschi lo avevano sempre tenuto nascosto. Vennero suddivisi per nazionalità, rendendoli riconoscibili da fasce di colori diversi che dovevano mettere al braccio (gli Italiani, per esempio, avevano una fascia bianca, rossa e verde), per poi essere mandati volta per volta a casa.
Ottenuto il via libera, cominciò assieme ad altri Italiani il lungo viaggio di ritorno, partendo dal campo con una camionetta militare, sostituita pochi chilometri dopo da un trattore. In treno arrivarono in Austria, dove avveniva lo smistamento tra Italiani del nord e del sud, per poi proseguire sempre in treno e scortati prima dai Sovietici e successivamente dagli Americani verso l’Italia. Questi li tennero rinchiusi nel treno al loro arrivo sul Lago di Garda, perché prima di lasciarli liberi avevano il compito di interrogarli. Con gli altri Bellunesi aspettò il treno per Belluno, ma a causa della guerra la linea ferroviaria aveva subito dei danni, quindi da Vittorio Veneto dovettero proseguire con il pullman. Al suo arrivo a Belluno, il primo volto familiare fu quello di un carabiniere di Canale d’Agordo, che gli chiese se a casa sapevano che stava ritornando, dal momento che dopo l’ultima licenza nel settembre ’42 e in particolare dopo l’internamento nel campo non avevano più avuto notizia di lui, pensando di conseguenza che fosse morto.

Dopo due anni di prigionia, finalmente il tanto atteso ritorno a casa, accompagnato da una grande gioia e felicità, ma allo stesso tempo da un senso di disorientamento, perché non solo l’ambiente familiare lasciato cinque anni prima, ma anche tutto il paese, erano notevolmente cambiati rispetto a come lui se li ricordava. I primi giorni non uscì di casa, perché sfinito fisicamente e privo di energie. L’unica cosa che portò con sé durante il viaggio di ritorno, fu un violino, regalatogli da un francese nel campo e al quale fu sempre molto legato. 

E ora Enriqueta e Fellini, che ci spiegano perchè è importante la memoria:
1. Fellini: "So com'è la forma del cuore, la forma del cevello, la forma degli occhi" 2. Però com'è la forma della memoria? 3. Enriqueta: "Secondo la mamma la memoria ha la forma di giustizia"

martedì 9 luglio 2013



«Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli» (La società dello spettacolo, Guy Debord, 1967)


Sei giorni, 144 ore di diretta, uno spettacolo da record, la settimana scorsa abbiamo assistito ad uno spettacolo globale, andato in onda su radio, TV, giornali e internet, miliardi gli spettatori. Il viaggio di Obama in Africa è stato uno spettacolo scintillante. Lo so, tutti hanno scritto qualcosa sul viaggio di Obama e in questo sono complice dichiarato e consapevole del meccanismo che ruota intorno al Presidente degli Stati Uniti. A mia discolpa posso dire che Obama è passato davvero vicino a dove vivo al momento, circa 70 chilometri, quindi la “febbre Obama” ha colpito anche la Tanzania.
Perchè sostengo che tutto è spettacolo? Perchè quello che ci fanno vedere è il primo afro-americano eletto Presidente degli Stati Uniti in visita in Africa, terra d’origine del papà*.
Quello che si sa sono quanti aerei hanno accompagnato il presidente, con tanto di auto portate dagli Stati Uniti, ogni giorno prime pagine e pagine interne tappezzate di foto di Obama e famiglia che scendono e salgono scaltte di aerei, accarezzano e tengono in braccio bambini e palleggiano con palloni da calico futuristici in grado di accumlare energia e ricaricare un telefonino. A che il presidente Tanzaniano Kikwete partecipa allo show, versando qualche lacrima di contentezza nel momento dei saluti al pari grado Americano. Lacrime prontamente immortalate e pubblicate sul quotidiano più vicino al partito del presidente: Jambo Leo.
1. Le penne, marca: "Obama"

Sicuramente quello di Obama non è turismo di lusso, ma un viaggio d’affari mascherato con alcuni eventi sociali come la visita a Robben Island, luogo di prigionia di Mandela, o al cimitero delle vittime dell’attentato all’ambasciata Americana in Tanzania nel 1998. Due-tre ore al giorno della famiglia Obama riempono ogni spazio su radio, TV e giornali, i momenti che contano, ovvero gli accordi, le trattative, portate avanti dal suo “team”scompaiono nel silenzio assoluto e sfuggono all’analisi di tutti i media, braccia complici di un sistema raffinato fatto per spettacolarizzare, distrarre e manipolare.
Quello che non vediamo è un presidente statunitense che va in Africa per promuovere le multinazionali americane e, con i suoi soldi e mezzi, con la sua retorica brillante e credibilità, nonchè con l’aura mediatica ed il fascino del primo president afro-americano. Quello che non sappaimo è che l’intera visita è stata organizzata nei minimi dettagli dal governo Tanzaniano che si è assicurato di distribuire magliette, cappellini e bandierine (ma forse anche cibo e soldi) e disporre ad arte centinaia di persone lungo il percorso del presidente Americano. Quello che non vediamo è che per accogliere un presidente straniero sono stati piazzati in tutta Dar es Salaam centinaia manifesti enormi con la foto di Obama e la scritta Karibu, “benvenuto”. Quello di cui non si parla sono i soldi spesi per pulire la strade dove sarebbe passato il presidente Americano. Quello che i media non dicono è che centinaia di venditori ambulanti di strada, chiamati “marching guys”  (ragazzi che marciano) hanno perso 3 giorni di lavoro perchè è stato loro vietato di svolgere la propria attività nelle aree della città dove si trovava Obama. I marching guys guadagnano circa 2-3 euro al giorno, perciò perdere una giornata di lavoro significa per loro non mangiare. Quello che non viene detto è che molti negozi sono stati chiusi forzatamente per dare al presidente Americano un’apparenza di ordine e pulizia. Quello che non si sa è che decine di mendicanti sono stati “arrestati temporaneamente” per la durata del soggiorno di Obama per evitare che fossero in giro per la città a chiedere l’elemosina. In un paese che non ha soldi per pagare dottori, infermiere, insegnati o per comprare le medicine negli ospedali o i libri nelle scuole per i propri cittadini questo spreco di fondi pubblici e mezzi è inconcepibile e raccapricciante.
2. Le penne Obama in vari colori

Lo show della visita di Obama in Africa è una spessa cortina di fumo che porta a non parlare delle vere ragioni del suo viaggio che sono le stesse di qualsiasi capo di stato in visita all’estero: promuovere gli interessi del proprio paese in Africa. Certo, ci sono gli aiuti allo sviluppo ma nessun governo è altruista, specialmente di questi tempi, per ogni dollaro investito in Africa ne devono tornare almeno 2, 5, 10 o più sotto altre forme; è un colonialismo raffinato, sottile, invisibile ma deleterio, oscuro e oppressivo. Il viaggio di Obama in Africa è costato circa 100 milioni di dollari, un simile investimento sommato agli aiuti umanitari provenienti dagli USA è accettabile solo se risulta in un vantaggio economico alla nazione Americana  superiore alla cifra investita.
Aveva ragione Guy Debord, me ne rendo sempre più conto, soprattutto quando mi trovo ad assistere, a consumare, eventi come quello della visita di Obama in Africa. Credo fermamente che tutto ciò che viene trasmesso dai media sia spettacolo, di conseguenza credo anche che quello che vediamo e sentiamo non sia la realtà. Putroppo di questa seconda parte della frase, non sempre ce ne rendiamo totalmente conto.
Una volta si commerciavano collanine, vetri colorati o manufatti privi di valore in cambio di avorio, pietre preziose, minerali o uomini, ora si baratta qualche miliardo di aiuti in cambio di politiche favorevoli agli Stati Uniti, trattati commerciali che portano vantaggi alle elite ma che derubano della sovranità il popolo, il quale non ha nessun controllo (tranne le elezioni ogni 5 anni, ma anche su questo ci sarebbe poi molto da dire) sulle proprie risorse naturali. Per prima, la terra, con migliaia di pastori masai sfrattati per far posto agli emiri arabi, ma anche i contadini sfrattati, per produrre carburante, zucchero ed energia. I tanzaniani non hano controllo nemmeno su altre risorse come l’acqua o il gas naturale prelevato a Mtwara, nel sud, e portato a Dar es Salaam senza una minima ricaduta di sviluppo sulle popolazioni locali; oppure sull’uranio per cui si sta costruendo una strada che da Songea lo porterà verso l’Oceano e verso la Cina o l’Australia, seguendo quelle stesse rotte che un volta portavano gli schiavi al mare. Poco controllo del popolo anche sui minerali, come l’oro, estratto nella regione di Mara, dove le miniere di proprietà della compagnia canadese Barrick inquinano ruscelli e fiumi e uccidono persone e animali. Al commercio di minerali seguiranno gli uomini, obbigati a lasciare le campagne dove le condizioni di vita non permettono né le loro attività tradizionali nè nuove attività lavorative. I giovani, dalle campagne si riversano nelle città, naufraghi urbani delle sviluppo al servizio di un nuovo sfruttamento come parcheggiattori, donne di servizio, prostitute oppure spazzini per tenere pulite le strade dove passerà Obama.
3. Ali Hassan Mwinyi road - Dar es Salaam, Tanzania (foto by Daniela Biocca)

Gli interessi ed il benessere superfluo degli americani, europei e asiatici sono un capestro che pesa sull’Africa, a sua volta dominata da un’elite politico-economica di poche famiglie ricche e potenti. Un’ elite che vive sfruttando in maniera parassitica una massa di naufraghi dello sviluppo, una massa di esclusi che sopravvivono guidando pulmini 14 ore al giorno, zappando le terre residue e meno fertili, friggendo patatine o qualsiasi cosa i loro vicini di casa siano in grado di comprare per qualche manciata di centesimi di euro. Quella tanzaniana è un’economia soffocata, sbilanciata, controversa, dove coesistono nuovi centri commerciali luccicanti, potenti auto di lusso e capanne di fango, spianate di immondizia, fogne puzzolenti e miseria umana.
La spogliazione dell’Africa è reale ed in continuo aumento, ma non cadiamo nell’errore di considerare gli africani dei sempliciotti, sprovveduti e sostanzialmente ingenui. I governi europei riescono a mietere alti profitti e firmare contratti a loro vantaggio perchè c’è una classe politica corrotta ed un’elite economica autoctona avida che permette anzi, incoraggia tutto questo. L’elite Africana si ingrassa e si rinforza attraverso questo meccanismo di scambio reciproco di favori con le controparti europee, americane ed asiatiche. A perdere, sempre gli stessi, gli ultimi, gli emarginati, i naufraghi di questo sviluppo che affama ed asseta invece che sfamare e dissetare.


* Barak Obama Senior: il padre del presidente Americano era un economista kenyano (tribù Luo) che ebbe un matrimonio di 3 anni con la mamma di Barack Hussein ma che non ha quasi mai vissuto con il figlio. Il padre è morto in Kenya, per un incidente stradale nel 1982, povero e malato, dopo essere stato marginalizzato anche a causa di divergenze politiche col Presidente keniano Jomo Kenyatta.


E ora Liniers e la sua simpatica dolcezza:
"Un po' di più"

giovedì 25 aprile 2013

Notas de viaje...: Mondi sospesi

Notas de viaje...: Mondi sospesi: Il mare è silenzioso e luccicante, il ritmo, lento e placido delle onde segue il ritmo del respiro, la brezza marina, la sabbia sotto...

Mondi sospesi



Il mare è silenzioso e luccicante, il ritmo, lento e placido delle onde segue il ritmo del respiro, la brezza marina, la sabbia sotto i piedi, una distesa di sabbia bianchissima, la baia di Bagamoyo, a sinistra l’oceano, increspato e luccicante, a destra colline verdi, palme lunghissime, esili, con il loro verde fuoco d’artificio accarezzato dal vento. Piedi nell’acqua, tiepida in questa domenica mattina, ciabatte in mano, saliamo in barca, si ondeggia, il motore si accende e lentamente la barca dirige la prua verso la barriera coralline, siamo con Christian, francese che parla un inglese stentato e farraginoso ma dall’animo gentile, sorridente e molto dolce. Le prime spiegazioni sull’uso dell’attrezzatura per le immersione, alcuni esercizi su come respirare sott’acqua con boccaglio bombole e maschera. Siamo un po’imbranati inizialmente ma poi respirare sott’acqua, recuperare il tubo dell’ossigeno e svolgere le prime operazioni sott’acqua diventa pian piano più naturale. Christian è il nostro istruttore di sub, poco oltre la quarantina, ex dirigente di una compagnia di trasporti, appassionato di subacquea, ha mollato lavoro, figli e famiglia in Francia 2 mesi fa per venire in riva all’Oceano Indiano ad insegnare sub, sta seguendo la sua passione e al momento sembra molto felice nonostante le barriere linguistiche e la lontananza della famiglia. Dopo I primi esercizi risaliamo a bordo della barca, dove Muhamad e Omari, il capitano e il suo aiutante, ci attendono sonnecchiando. Insieme a loro mangiamo un panino, una banana e beviamo un po’ d’acqua, sullo sfondo una splendid isoletta di sabbia bianca emerge nel bel mezzo dell’acqua azzurra e limpida. Scendiamo di nuovo in acqua, questa volta in esplorazione, pochi metri sotto il pelo dell’acqua ci si apre un mondo nuovo davanti: I fondali rivestiti di coralli Verdi, gialli, rossi blu, spessi oppure estesi e cespugliosi come alberi sottomarini, le lunghe e affusolate stele marine, pesci ovunque gialli, blu, arancioni, bianchi, il pesce leone con decine di buffe pinne colorate, i ricci di mare, neri ed immobile…laggiù da solo, nel silenzio del mare penso che tutto ciò è in pericolo.
Pochi chilometri più a Sud, c’è il villaggio di Mbegani, un tranquillo villaggio di pescatori a 15 chilometri da Bagamoyo, ex-capitale dell’Africa Orientale coloniale tedesca, cittadina sulla costa del’Oceano Indiana caduta in disgrazia proprio per lo spostamento dei flussi commerciali a Dar es Salaam a causa della scarsa profondità della baia di Bagamoyo che non permette il traffici di navi pesanti. Ora con un mix di tecnologia moderna ed investimenti infrastutturali private e pubblici il governo tanzaniano sta cercando di creare un nuovo porto per favorire il commercio in Tanzania ma anche fra Tanzania e stati confinanti come Rwanda, Uganda, Burundi, Congo orientale, Malawi e Zambia i quali non hanno accesso diretto al mare.
La mappa dell'area di sviluppo nella baia Mbegani, Bagamoyo

Il porto è solo una tessera di un puzzle di sviluppo infrastrutturale ed economico, chiamato Special Economic Zone (SEZ – Zona Economica Speciale) ed Export Processing Zone ( Zona processazione esportazioni). Il progetto è gestito dalla apposite autorità: Export Processing Zone Authority e comprende una prima fase che prevede la realizzazione di un mega parco industriale (investimento necessario circa 92 milioni di euro per le infrastutture). Il parco industriale è già in via di realizzazione e si chiama Kamal Industrial Estate, una ditta multinazionale, a capitaleindiano e tanzaniano, la prima a gestione interamente privatizzata senza controllo del governo, una zona franca di 297 acri, quasi 150 campi da calcio, 3 volte l’estensione di Città del Vaticano. Una Zone Economica Speciale è una zona dove imprese posso produrre a regime fiscale agevolato (o addirittura esentasse) e a burocrazia semplificata per accorciare tempi di start-up e facilitare gestione amministrativa. Ben 227 nuclei famigliari, 1300 persone sono stati affetti dall’esproprio della terra e sono stati compensati, con una media di 1.321 euro a famiglia per la perdita dei terreni, case, eventuali attività economiche e spostarsi in un’altra zona.
La fase due invece è più complessa e prevede:
  1. Un porto: 7,6 milioni dalla Cina per la costruzione di uno dei più grandi porti in Africa entro il 2017. Solo una piccolo percentuale dell’investimento necessario a portare avanti la realizzazione di questo immenso ed ambizioso processo di sviluppo. Il porto progettato avrà 2 moli per l’attracco delle navi per un totale di circa 3-400 metri di ormeggio disponibili, profondità di circa 13-4 metri, capace di muovere 20 milioni di container all’anno.
  2. Una zona processazione per l’import-export, investimento necessario 70 milioni di euro.
  3. Una zona di commercio franca, ovvero esentasse investimento necessario 54 milioni di euro.
  4. 2 villaggi turistici, investimento richiesto circa 54 milioni di euro, che includono hotel, appartamenti residenziali e un campo da golf ma anche un ospedale e scuole.
  5. Un parco scientifico e tecnologico, investimento necessario 39 milioni di euro. Una specie di cittadella per ospitare sedi di società del settore servizi-tecnologia collegate ad università di  Dar es Salaam e università turche.
  6. Un centro affari e uffici per le compagnie operanti nella zona, investimento necessario: 54 milioni di euro
  7. Un aeroporto

Altri 2.000 acri sono stati già espropriati con compensazione approvata a gennaio 2013 con tanto di pubblicazione della lista dei 593 nuclei famigliari (circa 3.500 persone), per un totale di 560.000 euro, una media di soli 944 euro a testa.
La tipica famiglia tanzaniana che beneficierà del nuovo campo da golf nelle vicinanze di Bagamoyo

A fine marzo, il governo cinese ha visitato Bagamoyo e promesso 7,5 milioni di dollari ma questi sono sono solo una parte dell’investimento necessario, il resto verrà da investitori privati. Il porto sarà sviluppato da ditte cinesi con un contratto chiamato BOT (Build Operate and Transfer, Costruire, Operare e Trasferire) che è un esempio di partnership privato-pubblico fortemente promossa da Banca mondiale e Agenzie delle Nazioni Unite come modello di finanziamento per opera pubbliche. In poche parole una privatizzazione a termine che permette alla ditta privata, in questo caso cinese, quindi fortemente controllata dal governo cinese,  di progettare, costruire, gestire a soprattutto di sfruttare gli introiti derivanti dal porto fino a quando l’investimento effettuato dale ditte cinesi non sarà completamente ripagato.

Questo tipo di contratto conferisce grande autonomia alla ditta private nella gestione del traffico portuale. Critici come Mr. Eke Mwaipopo e Mr.John Lubuva (consulenti privati in materia di sviluppo economico e pianificazione urbana nonchè funzionari governativi per oltre 30 anni) sostengono che questo potrebbe permettere a ditte poco etiche di commerciare illegalmente risorse naturali tanzaniane come legno, gas, uranio, tanzanite e altri minerali estratti dal suolo tanzaniano come già successo in passato durante la costruzione della TAZARA, la famosa ferrovia che collega il porto tanzaniano di Dar es Salaam con gli immensi giacimenti di rame dello Zambia. Secondo mr.Mwaipopo e Mr.Lubuva affidare la gestione di infrastrutture chiave come i porti a compagnie private è una pratica rischiosa che espone la Tanzania al rischio di saccheggio delle proprie risorse minerali e naturali. Inoltre, il gigante cinese potrebbe utilizzare il porto di Bagamoyo anche come punto d’appoggio logistico (rifornimenti e periodi di riposo) per le navi militari cinesi di stanza nell’Oceano Indiano, come sta già facendo nel porto pachistano di Gwadar. Il porto potrebbe anche essere usato come punto d’entrata facilitata per le merci cinesi e componenti per progetti cinesi nella regione approfittando del minore livello di controlli sul porto di Bagamoyo rispetto ad altri porti controllati dal governo tanzaniano.
La spiaggia di Bagamoyo

Forti preoccupazioni ambientali sono state espresse da Mr.Daffa Direttore del Tanzania Coastal Management Partnership (Programma Gestione Costiera Tanzania, una organizzazione parastatale dedicata alla conservazione dell’ambiente costiero e marino tanzaniano) secondo il quale il porto è stato progettato in una zona definite ecologicamente sensibile. La zona in questione è una bassa laguna che ospita coralli, delfini, tartarughe, crostacei e pesci tropicali già fortemente minacciati dall’intenso sfruttamento ittico e turistico di quel tratto di Oceano Indiano. L’equilibrio della baia di Mbegani dove dovrebbe sorgere il porto è tanto delicata che TCMP in collaborazione con I gruppi di pescatori e le autorità locali ha creato 4 no take zones, ovvero dei piccolo “santuari” dove la variegata fauna marina può andare a riprodursi al riparo da pescatori e turisti. Inoltre, costruire un porto di simili dimensioni implicherebbe scavare dei canali nel fondale sabbioso per permettere alle navi di grandi di attraccare, avviare simili lavori solleverebbe enormi quantità di limo dal fondo marino che causerebbe il soffocamento dei coralli, un fenomeno conosciuto come silting una delle maggiori cause di distruzione della barriera corallina, assieme alla pesca con esplosivo, a strascico e inquinamento delle acque.La soluzione proposta da TCMP è l’ampliamento del porto di Dar es Salaam e Tanga, già sviluppati e situati in zone di costa meno delicate e meno ricche dal punto di vista faunistico.
Emergo dall’immersione, mi asciugo e mentre torniamo verso riva, un branco di delfini circonda la nostra barca ed inizia a nuotare al nostro fianco, le loro pinne grige tagliano il pelo dell’acqua, poi si immergono e scompaiono, animali meravigliosi ed intelligenti che si meritano tutta la stima ed il rispetto che leggo negli occhi di Muhamad e Omari mentre ci raccontano come i delfini sino capaci di portare in salvo i pescatori che affogano al largo, leggenda di mare o verità, non lo so, ma amo questi animali e questo ambiente meraviglioso. Questi mondi, sia quello sommerso che quello di superficie,sono in equilibrio delicato e precario che, nonostante la pressione di una popolazione crescente, ancora supportano specie rare e un ambiente incontaminato. Fa male pensare che tutto questo fra qualche anno potrebbe scomparire per inseguire un modello di sviluppo amico dei ricchi e dei potenti ma nemico dell’uomo, della natura e dell’ambiente. Mondi in equilibrio, ma sospesi.

E ora Enriqueta, Fellini e la Natura:
Quando scriverò la mia autobiografia, questa sarà una bella pagina

martedì 16 aprile 2013

Notas de viaje...: Flashback: C'è sempre un mango - Marzo 2009

Notas de viaje...: Flashback: C'è sempre un mango - Marzo 2009: Nota:  il 31 gennaio 2012 ho perso tutti i vecchi post per la chiusura di Splinder. Sto lentamente recuperando i miei vecchi post, pub...

Flashback: C'è sempre un mango - Marzo 2009



Nota: il 31 gennaio 2012 ho perso tutti i vecchi post per la chiusura di Splinder. Sto lentamente recuperando i miei vecchi post, pubblicati su altri siti. Il contenuto è quello originale anche se alcune cose sono state riviste e corrette dal punto di vista ortografico e grammaticale. 

Marzo 2009, Bagamoyo - Tanzania - Servizio Civile con CVM (Comunità Volontari per il Mondo)

Il sole brilla chiaro ed indisturbato alto nel cielo azzurro, nessuna nuvola a intralciare i suoi raggi potenti e penetranti. Dondoliamo dentro il fuoristrada, sudati e sonnolenti per la temperatura e il viaggio di un paio d’ore su strade polverose e dissestate, oggi è giornata di visita sul campo, dopo giorni di lavoro in ufficio oggi è arrivato il momento di andare a vedere come procedono le attività ma soprattutto di incontrare i veri protagonisti del progetto che stiamo facilitando, donne e uomini dei villaggi del distretto di Bagamoyo, amici e compagni di viaggio.
Qualche discussione durante il viaggio, normalmente in inglese, sempre più spesso in “tentato swahili” e a volte in italiano. Complice il caldo, ci si assopisce, soprattutto io e Francesca, ma veniamo presto svegliati da una buca o da un dosso, non possiamo lamentarci, il nostro viaggio è molto più comodo rispetto a quello di qualsiasi altra persona che incontriamo lungo il tragitto, pulmini sovraffollati da mamme con il loro relativo fagottino dagli occhi grandi e neri, incerte biciclette sovraccariche e scricchiolanti oppure gruppetti di donne e ragazze in fila indiana con pesanti secchi in testa, i corpi avvolti da kanga variopinti e i volti rigati dal sudore.
Ormai è marzo e dovrebbe essere iniziata la stagione delle piogge, ma di acqua nemmeno l’ombra, solamente qualche breve acquazzone che dura meno del tempo di una canzone. Larghi appezzamenti di campagna iniziano ad ingiallire e i contadini iniziano a temere per i propri raccolti ma la per gran parte il colore dominante è ancora il verde degli immensi spazi non coltivati punteggiati da magre mucche al pascolo e palme spettinate dalla brezza proveniente dall’ Oceano Indiano. Arriviamo a Talawanda, il primo villaggio della giornata, ci accolgono volti sorridenti e mani tese, mani ruvide e dalla pelle spessa, sguardi timidi e sfuggenti, sguardi più vivaci e curiosi di bambini scalzi che giocano allegramente sotto un mango. Eh sì, perchè c’è sempre un mango, c’è sempre un mango all’ombra del quale sedersi e chiacchierare, spuntano le sedie e le panche e ci si siede insieme, una alla volta spuntano le ragazze che grazie ad un piccolo prestito hanno migliorato o iniziato una loro piccola attività economica, c’è chi cucina, c’è chi compra e vende vestiti, che chi prepara pane e frittelle e le vende per strada, c’è chi ha deciso di vendere frutta e verdura o chi ha preferito il pesce. Ascoltiamo, consigliamo, incoraggiamo. Saliamo di nuovo in macchina e ci spostiamo verso il prossimo villaggio, Msata, anche qui c’è un mango, un verdissimo mango frondoso, al momento privo di frutti, ci sediamo con il gruppo locale dell’associazione di persone che vivono con l’HIV/AIDS. Anche qui volti sorridenti, sguardi sfuggenti e mani ruvide, compaiono due stuoie e ci sediamo sotto il mango, ancora una volta scenografia naturale di questo incontro, all’ombra del mango ascoltiamo racconti di vita, di gente che lotta, gente discriminata, gente che ha voglia di vivere una vita piena e ha voglia di lottare.
Abbiamo viaggiato molto lungo le strade del distretto, stretto decine di mani, salutato molte persone, sotto un mango abbiamo condiviso problemi, ascoltato speranze e bisogni, sogni di un futuro migliore, l’importante è che ci sia sempre un mango sotto al quale sedersi senza fretta, lentamente, aprendosi all’ascolto e essendo pronti a raccontarci, per condividere qualcosa e crescere insieme. Credo che questa sia una lezione molto importante, dovremmo cercare un mango tutti i giorni, se non fisicamente, almeno un mango spirituale, sotto al quale sederci e lasciare da parte la fretta, i piccoli doveri quotidiani e lasciarci andare in conversazioni e cuore aperto, lentamente, senza tempo, senza barriere e senza pregiudizi, abbassiamo lo scudo protettivo di cui spesso abbiamo bisogno, o pensiamo di aver bisogno, per andare avanti nella vita di tutti i giorni. Abbassiamo lo scudo, abbassiamo le armi e sediamoci insieme sotto un mango, anche questo l’ho imparato qui, in Africa.

E ora Liniers, che con Fellini ci fa notare la poesia anche negli alberi...

Fellini: "Le palme sono i fuochi artificiali degli alberi"

venerdì 15 marzo 2013

Africa, 4 anni



“Kosovo! Kosovo!” grida il controllore del minibus, “Acha!” risponde una grassa signora avvolta in un vestito che è un caleidoscopio di colori brillanti e vivaci: giallo, rosso, verde, blu, sudata, si alza con 2 enormi sachetti di plastica nera, scende lentamente dal minibus. Asciugandosi il sudore dalla fronte sotto il sole cocente e abbacinante del meriggio equatoriale, si guarda intorno alla ricerca di una moto-taxi (piki-piki). Kosovo non è lo stato dei Balcani, ma la penultima fermata dei mezzi pubblici sulla tratta che da Dar es Salaam, Dar per gli amici, porta a Bagamoyo, Baga per gli amici.
Sono arrivato a Bagamoyo per la prima volta il 23 novembre 2008, non sembra ieri, sembra tanto tempo fa, molte cose sono cambiate. Tornare ancora qui, oltre quattro anni dopo fa uno strano effetto e avendo tempo per riflettere mi trovo a pensare a quante cose siano cambiate in questi anni e a quante invece siano rimaste le stesse.
Per fortuna la spiaggia è rimasta la stessa, a volte tranquilla e silenziosa, a volte movimentata e rumorosa, fitta di pescatori intenti avendere il pesce, scaricatori di porto che scaricano le immancabili taniche di plastica gialla dai barconi che commerciano con Zanzibar e compratrici di pesce, sdraiate a pulirlo o a contrattare il miglior prezzo possible. Le corde che ancorano le barche a terra sono sempre là, e noi, a schivarle, a passare sopra o sotto. L’odore della spiaggia è lo stesso, alghe, pesce imputridito ma anche la brezza dell’Oceano Indiano, che rinfresca e risolleva il corpo e la mente. Due grandi alberghi sono andati a fuoco 3 anni fa e non hanno più riaperto, mentre un colosso di cemento sbiancato è sorto a pochi centinaia di metri dalla croce che ricorda i primi missionari cattolici che alla fine del XIX secolo sono arrivati a Bagamoyo per predicare il Vangelo. Ora, oltre all’opera evangelizzatrice, hanno costruito e gestiscono un albergo, i tempi cambiano.
Alcune strade, prima di sabbia sono state asfaltate, di certo sono più comode, ma significa anche che i giovani e spericolati guidatori delle moto-taxi e i pazzi guidatori di camion e minibus possono sfrecciare a velocità nettamente superiori, mettendo a repentaglio la vita dei passanti, soprattutto quella di bimbi distratti e anziani dalla vista scarsa e dai movimenti rallentati. Ora a Bagamoyo ci sono 2 banche con il relativi bancomat, di cui uno allacciato ai circuiti internazionali, quando sono arrivato io, per prelevare bisognava andare a Dar es Salaam. Più banche non significa necessariamente che la gente abbia più soldi, anzi l’impressione di tutti è che nei locali pubblici, alberghi e ristoranti ci sia sempre meno gente, locali che una volta erano il fulcro della vita serale e notturna di Bagamoyo (sì, anche in Africa si fa festa…) sono ora smorti e popolati solo di qualche indomabile bevitore e qualche dolce coppietta che sorseggia una bibita sussurrandosi frasi d’amore.
I prezzi di alcuni beni di consume sono aumentati in maniera spropositata: la farina di mais per l’ugali, il piatto base dell’alimentazione tanzaniana è passata da 6-700 scellini al kilo (0,33-0,38 cent di euro) a 1.200-1.400, esattamente il doppio; il riso è passato da 1.200-1.300 scellini (66 cent di euro) ad attorno 2.000-2.200 scellini al kilo; la birra ha subito lo stesso aumento del riso, da 1.300 scellini nel 2009 a 2.000 scellini nel 2013. I salari e i prezzi per i contadini non sono aumentati di pari passo e questo ha avuto terribili conseguenze alimentari. Le famiglie più povere, che sono spesso anche le famiglie più numerose,  si sono trovate e diminuire il numero di pasti mettendo i bambini a rischio malnutrizione. L’aumento del prezzo della birra ha anche indotto ad un aumento del consumo di alcol prodotto localmente con relativo rischio di salute. L’alcol locale, infatti, viene spesso “tagliato” con sostanze tossiche in maniera da renderlo più potente. Mezzo litro, al costo di circa 500-600 scellini (un quarto di una birra) basta allo sballo per una serata ma spesso costa ai consumatori l’integrità o la funzionalità di fegato, del cervello o la perdita della vista.
Alcune cose cambiano, altre rimangono uguali, spesso sia in un caso che nell’altro capire il perchè è complicato , difficile, l’Africa è un continente complesso, imprevedibile, credo, in un certo qual modo inconoscibile, inafferrabile e inspiegabile. Dopo quattro anni qua non credo di capirne molto di più, si, ho imparato molte cose, parlato con centinaia di persone, mi sono confrontanto e scambiato idee con gente di tutti i tipi ma non credo di aver migliorato di molto la mia compresione delle dinamiche interpersonali, comunitarie e sociali di questo angolo d’Africa. Al contrario, sono convinto che forse, per vivere bene qui, a volte bisogna lasciar stare le spiegazioni razionali e i mille dubbi, la ricerca di un perchè e semplicemente vivere, assaporare, nel dolce e nell’amaro, il gusto di un continente altro, ricco di drammi, ma anche di idée, sogni e speranze.
Al buio, seduto su una scomodissima sedia di plastica, ascolto le rane che nel vicino stagno gracidano fragorosamente, osservo la sagoma nera delle palme, si stagliano contro il cielo blu scuro punteggiato di luci, le fronde si muovono, la brezza soffia leggera sulla pelle e solleva un brivido piacevole. Col naso all’insù, ad ammirare lo scintillio della via lattea e questo meraviglioso spettacolo notturno smetto di pensare, ecco, l’Africa.

Anche il gatto Fellini guarda il cielo:
"La luna sorride..." Mi sembra che sappia qualcosa che noi non sappiamo Madariaga"